La letteratura “alta” è diventata con poche eccezioni una discesa agli inferi, mentre la parola “sentimentale” è diventata sinonimo di “smielato” e “patetico”
- L’incipit di Anna Karenina ha segnato la pietra tombale per il romanzo sentimentale, che a differenza del giallo, non è mai stato pienamente rivalutato dalla critica
- In realtà, i sentimenti, declinati nelle loro varie forme, occupano e informano di sé alcuni dei romanzi di maggior successo degli ultimi anni
- Lavorare con un autore come Roberto Emanuelli, inserito nella categoria degli autori “pop” in senso denigratorio, mi ha fatto capire quanto sia miope il pregiudizio sulla letteratura sentimentale
Se si volesse individuare il momento della storia letteraria che ha rappresentato una pietra tombale per il romanzo sentimentale, retrocedendolo a sottogenere con scarse probabilità di riscatto, questo momento andrebbe individuato nel celeberrimo incipit di Anna Karenina: «Tutte le famiglie felici sono uguali, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo».
Al di là delle intenzioni di Tolstoj, questa frase si è incistata nelle nostre abitudini di lettori, trasformando la felicità perduta e ritrovata, il lieto fine, l’agnizione, in elementi sgraditi o guardati con sufficienza. La letteratura è stata, da allora e con poche eccezioni, una discesa agli inferi e un’esplorazione del male di vivere; l’idea di profondità è andata sempre più a coincidere con quella di mancanza o di incompiutezza, e la gioia di vivere, la realizzazione, la positività dei rapporti famigliari e amorosi, sono state progressivamente identificate nella migliore delle ipotesi con una forma di superficialità, nella peggiore con un’ipocrisia non più tollerabile.
Rivalutazione parziale
Le conseguenze di questa “svolta” sono visibili prima di tutto nel nostro vocabolario quotidiano: la parola “sentimentale”, al netto delle origini letterarie nobilissime (Il viaggio sentimentale di Sterne), è divenuta progressivamente sinonimo di “patetico”, “ingenuo”, “smielato”. E le conseguenze sono altrettanto visibili nella progressiva identificazione di tutto ciò che attiene alla sfera dei sentimenti con un sottogenere classificato come “rosa”, e con una scrittura che deve essere – non si sa per quale ragione – prerogativa delle donne, nella doppia veste di autrici e lettrici.
Un sottogenere, va aggiunto, quasi senza riscatto: perfino le rivalutazioni letterarie che di tanto in tanto lo toccano (una su tutte: quella di Liala) contengono un sottotesto nel quale la degnazione prevale sull’elogio. Si riconosce tutt’al più all’autrice da recuperare alle patrie lettere una capacità di scrittura fuori dalla norma, e la si “recupera” non a causa, ma nonostante il suo investimento e la sua indagine della sfera sentimentale.
Il caso Liala, per sintetizzare all’estremo, non ha niente a che spartire con quello che è culminato nella riscoperta dei maestri del giallo, da Chandler a Simenon; o dei padri della fantascienza contemporanea, da Bradbury a Dick, e rimane invece circoscritto, agli occhi dei critici e perfino dei lettori, al territorio della paraletteratura.
I sentimenti sono mainstream
I sentimenti, però, e la loro diagnosi non catastrofista, hanno conosciuto una fase di forte ritorno, un moto sussultorio che ha invaso tanto il settore della letteratura cosiddetta mainstream, quanto quei generi che dei sentimenti erano stati a lungo la negazione. Basti pensare al successo planetario di un romanzo come Va’ dove ti porta il cuore, rosa fin dal titolo ma firmato da un’autrice, Susanna Tamaro, che con le sue opere precedenti si era guadagnata uno spazio di diritto nella comunità letteraria; o anche alla solida presenza di un sottotesto sentimentale nelle serie gialle di maggior successo pubblicate in Italia negli ultimi due decenni: dall’amore di Salvo Montalbano per la sua Livia a quello del commissario Ricciardi per Enrica o di Rocco Schiavone per la moglie perduta.
E i sentimenti, declinati nelle loro varie forme, occupano e informano di sé alcuni dei romanzi di maggior successo degli ultimi anni, facendo da controcanto, a volte felice, a quella passione per le relazioni e i contesti famigliari disfunzionali che non ha mai cessato di alimentare la cosiddetta “letteratura alta”.
La zona grigia degli uomini rosa
Due anni or sono, durante un piccolo ma solido Festival letterario a San Gavino Monreale, in Sardegna, mi è capitato di assistere a una tavola rotonda cui partecipavano quattro autrici a vario titolo assimilabili alla cosiddetta letteratura “rosa”. A colpirmi, al di là della qualità della scrittura (in un paio di casi ragguardevole), è stata l’estrema varietà di temi e registri, laddove – per un pregiudizio non solo mio – mi aspettavo un’impostazione formulaica e ripetitiva.
Da quella tavola rotonda è partito un non breve apprendistato, che ha raggiunto il culmine lavorando con Roberto Emanuelli al suo nuovo romanzo, Quando tutto sembra immobile, Sperling&Kupfer.
In quanto uomo, Emanuelli non è mai stato ricompreso all’interno della narrativa cosiddetta “rosa”, ed è rimasto in una di quelle zone grigie che alimentano il sospetto – quando non la degnazione – della critica: la zona degli autori “leggeri”, “pop”, “sentimentali”, che vendono decine di migliaia di copie – quando non centinaia di migliaia – e che scrivono romanzi destinati (così pensano i detrattori) ai non lettori.
Ad accentuare questa impostazione critica, nel caso di Emanuelli, concorrevano almeno altri due elementi: il fatto che fosse entrato nella grande editoria (prima Rizzoli, poi DEA Planeta, infine Sperling) dalla “porta di servizio” dell’autopubblicazione, e la sua capacità di promuovere i propri libri attraverso un uso sapiente e innovativo dei social media.
Essere (davvero) sentimentali
C’era un dato che non mi tornava, rispetto ai giudizi liquidatori di molti giornalisti, colleghi scrittori e critici: ben lungi dal raggiungere solo la comunità dei non lettori, o dei lettori occasionali, i libri di Emanuelli avevano e hanno un pubblico anche molto qualificato. In larga parte femminile, certo, ma a giudicare dai dati sulla lettura in Italia, non si potrebbe e dovrebbe dire altrettanto di quasi tutti i romanzi usciti in Italia negli ultimi dieci anni?
L’altro elemento rivelatore mi è arrivato dallo stesso Emanuelli, quando abbiamo cominciato a parlare insieme del suo nuovo progetto narrativo: ho scoperto non la volontà di trovare spazio nella comunità letteraria, ma quella, ben più prosaica e infinitamente più professionale, di migliorare la propria scrittura, svincolandola dagli aspetti più “facili” e di impatto più epidermico senza per questo snaturarne l’anima “pop” e la capacità di essere “sentimentale” nel senso più solido e tradizionale del termine.
Abbandonare i pregiudizi
Non sta a me stabilire se questi obiettivi siano stati raggiunti: avendo lavorato insieme a Emanuelli sul testo, sarei inevitabilmente di parte. Ma nella storia di Daniele, dell’amore che ha perduto e che lo ha precipitato nell’immobilità, della sua famiglia, segnata dal lutto e dalla sofferenza ma riscattata dalla indistruttibilità degli affetti, del suo quartiere alla periferia di Roma, ancora regolato dalla legge della strada, e dei suoi amici di una vita intera, c’è la stessa autenticità e delicatezza dei romanzi precedenti, sorretta da un passo più maturo e da uno stile più sorvegliato e intimo.
E sì, si raccontano ancora i sentimenti come problema ma anche come radice di ogni riscatto possibile. Chiamiamola come vogliamo: letteratura, narrativa di consumo o pop. Non sono le etichette, a contare, ma la responsabilità che chiunque ami i libri e la lettura dovrebbe condividere, che sia un critico, un addetto ai lavori o uno scrittore: abbandonare il pregiudizio, e domandarsi, contro Tolstoj, se non sia pensabile che ogni famiglia sia felice a modo proprio.
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