- Quando ho scoperto che non potevo chiamare la mia nuova casa editrice Orwell press, la brutale domanda che mi sono posto è stata: e ora?
- Dopo giorni di nomi sempre più improbabili appuntati su post-it, mi è venuta in soccorso una cartolina “volante”
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Mesi fa, la notizia che il nome di George Orwell è ormai un marchio registrato mi ha suscitato due domande, la prima più articolata (chissà cosa ne avrebbe pensato il granduomo, nervoso e allergico ai cambiamenti com’era), la seconda più brutale: e adesso?
Da molto prima di nascere, infatti, la casa editrice si era chiamata Orwell. Il nome si era imposto quasi da sé, essendo l’idea di base pubblicare libri che raccontassero il presente, e a volte l’ombra che getta sul futuro prossimo. Ma la scelta aveva anche una ragione più nascosta. Pochi scrittori quanto Orwell hanno pensato, in parallelo a quello che i loro libri avrebbero dovuto contenere, alla forma che avrebbero dovuto assumere: specie quando ignoravano, come un numero consistente dei suoi, le ripartizioni tradizionali di genere.
Una lista sempre più improbabile
Sensate oppure no che fossero, tutte queste considerazioni andavano comunque messe da parte: il nome non si poteva usare. E al momento di depositare un marchio mancava poco tempo – pochissimo. Qui è cominciata la deplorevole coreografia nota a chiunque si sia messo in testa di aprire un’attività qualsiasi: telefonate compulsive a due terzi dei numeri in agenda, con preghiera di attingere a qualsiasi risorsa disponibile, e una quantità impressionante di bigliettini sparsi in ogni stanza, con liste di nomi via via più improbabili.
In sostanza, la casa editrice ha rischiato di chiamarsi prima come un esopianeta, poi come una delle varie navi partite dall’Europa e finite stritolate fra i ghiacci, e perfino come un tennista che immaginava di giocare con un’aquila reale sulla spalla. Per fortuna, tuttavia, il copione di ogni pochade – quindi anche di questa – prevede un colpo di scena. Che, puntualmente, è arrivato.
La cartolina
Alcune vite fa, appena sceso da un arcaico bimotore russo al centro della puszta – era una faccenda turistica, non fatevi idee sbagliate – avevo comprato su una bancarella una cartolina asburgica. Al centro, sopra un’indecifrabile didascalia ugro-finnica, svolazzava il trabiccolo su cui una mattina del 1902 Orville Wright si staccò, per una quindicina di secondi, dalle dune di Kitty Hawk.
Per qualche ragione – temo, la mia fissa per tutto ciò che vola – quel cartoncino era sopravvissuto a una decina di traslochi, e per qualche ragione mi finiva regolarmente sotto gli occhi: in quelle settimane, chissà perché, anche più del solito. Ogni tanto lo guardavo, e pensavo sarebbe stato un ottimo logo, per una casa editrice che però non esisteva.
Poi, a 72 ore circa dalla scadenza, e senza che mai avessimo parlato dei fratelli Wright, una persona cui devo qualcosa di più che una supplenza alle mie défaillances creative mi ha mandato un WhatsApp, il cui testo diceva: «Perché non la chiami Orville?». Ora, in genere se qualcuno mi racconta una coincidenza del genere, e soprattutto le attribuisce un significato, penso subito quale istituto potrebbe prendersi efficacemente cura di lui, o di lei. Ma è una regola che non sussisterebbe, se non contemplasse eccezioni.
Nome volante
Orville era un nome perfetto, per una quantità di motivi. Per dirne uno, il primo uomo a staccarsi da terra su un mezzo più pesante dell’aria detiene il titolo per caso, cioè per avere vinto un sorteggio meno sensato di quello del tennis, dove chi vince sceglie se servire oppure no. Qui chi vinceva doveva mettersi ai comandi del trabiccolo, onore che Orville sarebbe stato felice di lasciare a suo fratello Wilbur. Così facendo, avrebbe potuto tornare il prima possibile alla sua officina e all’unica passione che gli si conoscesse, costruire macchine funzionanti delle quali i suoi concittadini, magari senza ancora saperlo, avessero bisogno.
Ai prototipi che lo avrebbero reso una celebrity era infatti arrivato, insieme a Wilbur, dalla produzione artigianale di biciclette robuste, eleganti, e destinate a sostituire rapidamente i cavalli; e alle biciclette era arrivato da un paio di Monotype destinate a stampare un quotidiano locale di un certo successo, e sul finire della parentesi anche qualche libro. Tutto questo grazie a un solido gusto per l’essenziale, e un parallelo fastidio per l’ornamento: al punto che quando si era trattato - capita anche ai migliori - di trovare un nome al suo protobiplano, Orville era andato a recuperare dal suo mestiere precedente un termine puramente denotativo, Flyer. Indica com’è noto qualcosa che vola: e in tipografia, appunto, un volantino.
Una bottega
Rimane da spiegare quel “Press”. Nei nostri mestieri, è la parola con cui si definiscono imprese minuscole, generalmente a conduzione familiare (quando e se la famiglia non mette per tempo i fondi al sicuro), che in anni di lavoro producono in copie numerate nove sonetti di Shakespeare, impressi a piombo in un carattere disegnato per la circostanza.
La mia idea originaria bordeggiava pericolosamente questa, ma una delle sorprese di tutta la vicenda è che quando l’ho raccontata a Stefano Mauri, parlando di tutt’altro, la prima cosa che mi ha detto è stata: «Perché non lo fai da noi?». Perché è una cosa molto diversa da quelle che fate voi, gli ho risposto. Appunto, ha detto lui, che in molti casi limita la conversazione all’essenziale. Un po’ ci ho riflettuto – se ricordo bene, circa centottanta secondi. Poi ho accettato. Non posso negare abbia avuto un peso il terrore che un governo creativo come quello che stava per insediarsi reintroducesse, hai visto mai, la prigione per debiti. Ma in realtà l’idea di aprire una bottega in un angolo di una grande industria editoriale mi sembrava un esperimento inedito, che valesse comunque la pena di tentare. E infatti.
Mappe per esplorare l’ignoto
Benissimo, ma cosa pubblicare? Libri, è sempre stata la prima risposta che mi è venuta in mente: senza alcun’altra specificazione, neanche di genere. E questo per una ragione piuttosto precisa. Le jatture degli ultimi anni hanno scosso parecchie certezze della specie, e ridimensionato altrettante verità acquisite. Una era che il libro in quanto tale stesse a poco a poco scivolando nell’irrilevanza. Già nei primi giorni del lockdown, mentre da ogni genere di media nelle case di tutti rimbombavano le opinioni più inattendibili, prima qualche lettore solido, poi una quantità crescente di persone sono andate a cercare una delle poche fonti documentate e attendibili su quanto stava accadendo, e cioè Spillover, di David Quammen.
All’epoca lavoravo ancora nella casa editrice che lo pubblica, e proprio per questo posso garantire che la sorpresa maggiore non era il succedersi frenetico delle ristampe, ma il fatto che centinaia di migliaia di lettori e non, tutti insieme, avessero all’improvviso bisogno di un libro.
A un paio d’anni di distanza da quei fatti, mi è sembrato un eccellente punto di partenza. Per quanto strano possa sembrare, i libri – alcuni – ancora servono, specie se recuperano la loro funzione originaria: non di specchi in cui riconoscere la propria immagine (che spesso faremmo bene a dimenticarci), ma di mappe per esplorare territori sconosciuti, o disegnare percorsi nuovi in paesaggi che fin lì si ritenevano familiari. Credo che i primi due titoli di Orville abbiano queste caratteristiche. Box Hill, di Adam Mars-Jones, racconta un amore fra due uomini con tutta la franchezza, la sgradevolezza e anche la dolcezza necessarie, ma soprattutto facendo vivere la storia in uno spazio al riparo da tweet e retweet, che poi è quello della letteratura. Quanto a La tempesta è qui, di Like Mogelson, è una prova provata di dove possa arrivare la scrittura: ad esempio fin dentro una nebulosa incandescente come quella che ha portato Trump al 6 gennaio, per poi raccontarla come un romanzo di tipo nuovo, da cui è impossibile non sentirsi minacciati.
Mi fermerei qui, perché Orville qui si sarebbe fermato. Quando sentiva avvicinarsi domande troppo ingombranti sul futuro della sua invenzione, infatti, girava il molestatore a suo fratello, che gestiva le relazioni esterne della coppia. A modo suo, naturalmente. Richiesto di pareri troppo specifici, infatti, Wilbur se la cavava sempre con la stessa battuta: «Gli unici animali che parlano sono i pappagalli, mi risulta. E non è che volino tanto alti».
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