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Ottobre 1979. Roma, quartiere Montesacro. Siamo in quattro a caricare i libri nel piccolo ascensore. Sono duemila copie, quelle che restano dopo aver spedito dalla tipografia al distributore il grosso della tiratura dei primi due volumi che pubblichiamo.
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Chi ha ucciso queste (e tante altre) case editrici idealiste e artigiane? Cominciamo da due vecchie conoscenze del capitalismo criminale: la finanza e l’immobiliare.
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Già incontrare questi tre figuri – il banchiere, l’immobiliarista e Amazon – in una strada buia di periferia farebbe scappare chiunque fosse intenzionato a dar vita a una casa editrice con ambizioni non solamente commerciali. Ma ci sono nemici ancora più insidiosi.
Ottobre 1979. Roma, quartiere Montesacro. Siamo in quattro a caricare i libri – avvolti in pacchetti di carta da dieci copie – nel piccolo ascensore, schivando le grida rabbiose della portiera («Guasterete l’ascensore!»): io, Sandra, Nennella e Pietro. Sono duemila copie, quelle che restano dopo aver spedito dalla tipografia al distributore il grosso della tiratura dei primi due volumi che pubblichiamo: Esplosione di un impero? e Cenere e diamanti.
Il primo è un saggio profetico sulla fine dell’Unione sovietica, di Hélène Carrère d’Encausse (mamma di un figlio che molti anni dopo diventerà più famoso di lei, Emmanuel Carrère). Il secondo è un vivace studio dei film del regista polacco Andrzej Wajda, scritto da Giandomenico Curi, un amico critico cinematografico del Manifesto.
Il pavimento dell’appartamento al terzo piano reggerà tanto peso? Distribuiamo i libri su quasi tutta la superficie libera, lasciando solo i passaggi per arrivare alle due scrivanie, alla cucina, al bagno e al nostro letto matrimoniale. Un’editrice francese, arrivata a Montesacro quasi per caso, la battezzerà la “stanza editrice”.
La mattina alle dieci arriva Alfredo, apre con le sue chiavi e inizia a lavorare mentre io e Sandra restiamo a letto e parliamo con lui a distanza. Ma quella mattina ci siamo alzati prima del solito per spedire i volumi freschi di stampa al distributore.
Dai freddi locali della tipografia, aiutati dalla mamma di Sandra che si riscalda nella sua pelliccia, abbiamo riempito cartoni e inviato migliaia di copie di libri alle librerie. I nostri primi libri!
Banche, e non solo
Chi dunque ha ucciso queste (e tante altre) case editrici idealiste e artigiane? Cominciamo da due vecchie conoscenze del capitalismo criminale: la finanza e l’immobiliare.
La finanza in questo caso sono le banche, ma non solo. Per quanto riguarda i grandi gruppi editoriali internazionali, la Borsa ha avuto la sua parte nell’omicidio. Alcuni di voi ricorderanno il libro di André Schiffrin, dove questo editore un tempo indipendente raccontava come, per pagare il 10 per cento di utili agli azionisti dei grandi gruppi, si erano spremute le case editrici americane (non solo quelle), tagliando i libri, le collane, gli editor “improduttivi”, puntando tutto sui bestseller, azzoppando il pluralismo delle voci, dando pieni poteri a manager spesso digiuni di editoria ma molto ferrati in marketing e conti finanziari.
Da noi furono più le banche a far vedere i sorci verdi agli editori idealisti (nulla è cambiato oggi in questo senso, e non solo per il settore editoriale ma per tutte le piccole aziende; l’abbiamo visto pure con la spilorceria e l’incompetenza di tante banche ai tempi del Covid-19, nonostante le amplissime garanzie offerte dallo stato).
Gli istituti di credito prestavano denaro anche ad alcuni piccoli editori, ma in cambio di feroci ipoteche sulla casa di proprietà. Quanto tempo perso per ottenere udienza dai direttori di banca, a sperare in un loro gesto di clemenza! Forse ho letto più manoscritti nelle sale d’attesa degli istituti bancari che in qualsiasi altro luogo.
Ricordo che con un collega di un’altra casa editrice facevamo a gara a chi avesse più conti aperti, più linee di credito e mutui e factoring. Vinceva lui, che ne aveva aperti oltre dieci! Infine arrivava il momento in cui la banca, necessariamente, chiedeva indietro il denaro prestato e questo quasi sempre non c’era più, era stato speso. Solo che, contrariamente alla magica formula marxiana D-M-D (ovvero il Denaro investito diviene Merce e questa, una volta venduta, ridiventa Denaro, ma in quantità maggiore di prima), non era tornato indietro accresciuto, anzi spesso non era tornato indietro affatto. Così si perdevano le case (chi le aveva), i quadri, l’automobile. Ma questo, di nuovo, è il capitalismo e nessuno può negare che abbia in sé dei tratti educativi.
I pochi che restavano in piedi erano abbastanza “rieducati” da capire che bisognava stare molto accorti se si voleva rimanere in vita. In quel periodo, oltretutto, venne a mancare quel sistema politico ed economico – il comunismo – che aveva lasciato credere (sperare?) ad alcuni che l’economia potesse reggere e prosperare senza tener conto dell’efficienza, senza dover necessariamente premiare con i profitti i più abili (i più spietati?) e senza dover escludere i meno abili (i più buoni? I più idealisti?). Sicché tutti iniziammo a pensare fosse giusto così: se non si sapevano trasformare i libri in danaro, meglio non imbarcarsi nell’impresa.
Potevamo avere le idee più belle e originali del mondo su quali libri avrebbero dovuto leggere i lettori, ma se questi si rifiutavano di comprare quei libri, allora l’unico esito era di chiudere baracca e burattini.
Rendita immobiliare
Peggio delle banche, però – il cui compito in fondo era (ed è) da secoli quello di trasformare denaro in più denaro –, era (ed è) la rendita immobiliare, perché più viscida, più nascosta.
È vero che spesso gli immobili sono risparmio accumulato negli anni e “produttori” di una rendita che ricompensa i risparmiatori. Ma quanti sono i piccoli risparmiatori proprietari di un negozio che magari permette loro di vivere? Quanto più vasto, invece, è il patrimonio di quelle società immobiliari che guadagnano spesso cifre enormi senza grande fatica né inventiva?
E quanti sono i librai che, per avere un negozio con una discreta visibilità, con una clientela di “passaggio” come si dice, devono cedere parti cospicue (a volte decisive) dei propri redditi alla rendita immobiliare? Quanti editori hanno dovuto chiudere i battenti perché non sono riusciti a pagare gli sconti più alti richiesti dalle librerie (proprio perché loro stesse dovevano pagare affitti alti), o addirittura ad acquistare spazi espositivi per i loro libri (pratica sempre più in voga) sui tavoli e nelle vetrine dei punti vendita?
Quanta parte del reddito prodotto dall’intera filiera editoriale (dagli autori, alle case editrici, fino alle librerie) finisce così nelle mani della rendita immobiliare?
Il caso Amazon
L’illusione coltivata da alcuni che Amazon, facendo a meno del negozio fisico e delle relative spese d’affitto e arrivando direttamente a casa dei consumatori, avrebbe eliminato il peso della rendita immobiliare e ridotto così i prezzi, oppure investito il denaro risparmiato in una maggiore qualità del prodotto editoriale, si è rivelata del tutto infondata.
Il colosso di Seattle da una parte deve pagare enormi spese di magazzinaggio e trasporto (nonostante le notoriamente pessime condizioni di lavoro dei suoi dipendenti e dei suoi corrieri) per stivare milioni di libri e farli arrivare ai clienti in tempi sempre più rapidi; dall’altra, dopo avere per molti anni praticato prezzi scontati (spesso a livelli di dumping), una volta sbaragliata la concorrenza si è poi allineato ai prezzi correnti del mercato e vende i libri a prezzi uguali a quelli praticati dalle librerie (se non maggiori, attraverso il Marketplace, ossia quei rivenditori terzi che utilizzano la sua piattaforma per avere visibilità ma vendono i loro prodotti a prezzi spesso maggiori di quelli delle librerie).
Da ultimo, Amazon si è ben guardata dall’investire i suoi utili miliardari (tra l’altro trattati con i guanti di velluto da quasi tutti i sistemi fiscali del mondo) nella ricerca editoriale e nello sviluppo delle case editrici. Ha provato a diverse riprese a farsi editore in prima persona, in modo da non dover prendere i libri da quei rompiscatole degli editori, ma ha sempre fallito.
Il suo programma più ambizioso – Amazon Publishing – costituisce un gruppo con sedici diversi marchi che hanno pubblicato centinaia di libri. Tra questi c’è Amazon Crossing, specializzato in narrativa tradotta in inglese da molte lingue.
Ebbene, nonostante la sua potenza di fuoco, finora questa “casa editrice” non è riuscita a trovare autori di valore. Perché? Beh, semplicemente perché non sono veri editori (come non sono veri librai, ma solo venditori), e dunque non sono capaci di scoprire e far crescere degli scrittori, di intrattenere rapporti durevoli con loro, di presentarsi al pubblico con una personalità definita.
Amazon Publishing è un’impresa commerciale dotata di uno straordinario strumento di promozione e vendita dei propri prodotti, ma non è un editore. Malgrado l’impressionante galleria di editor presentati sul loro sito con robusti curriculum, non siamo a conoscenza di un solo libro memorabile che abbiano pubblicato in oltre dieci anni di vita.
Senza fiato
Fin qui abbiamo fatto conoscenza con un bel gruppetto di complici dell’omicidio collettivo perpetrato ai danni dell’editore-soggetto. Già incontrare questi tre figuri – il banchiere, l’immobiliarista e Amazon – in una strada buia di periferia farebbe scappare chiunque fosse intenzionato a dar vita a una casa editrice con ambizioni non solamente commerciali. Ma ci sono nemici ancora più insidiosi, che si presentano spesso come amici e sferrano invece le coltellate più micidiali, quelle da vicino o alle spalle.
Chi sono questi mostri?, vi chiederete. Non starai mica esagerando? Paranoia? Delirio di persecuzione? Aprite bene le orecchie e ascoltate quello che vi racconto.
Ma prima vi dico… Gennaio 2011. Io e Sandra siamo seduti in poltrona a casa, in due camere attigue. Solo una porta semiaperta ci separa. Leggiamo ininterrottamente da qualche ora. Silenziosi. Concentrati. Non mi prendo neppure un bicchiere di vino.
Sono arrivate le prime sessanta pagine del nuovo romanzo di Elena Ferrante. Si chiama L’amica geniale. Siamo rapiti. Quasi nello stesso momento alziamo gli occhi dai fogli, spingiamo la porta e ci guardiamo: «E ora? Come facciamo senza il seguito?».
Andrà avanti così per settimane, poi per mesi. Un pezzo alla volta ci arriverà il romanzo che ci lascerà senza fiato. Dopo alcuni mesi si giunge a un punto di svolta. L’autrice ci chiama. «Io avrei finito la prima parte, ma le protagoniste hanno ancora solo sedici anni. Cosa devo fare?».
Restiamo senza parole. «La prima parte?! Ma doveva essere un unico volume. Ci sono già quattrocento pagine». «Dovrò scrivere altri volumi». «Quanti?!» (con gioia malcelata). «Non lo so».
Andiamo avanti così per quattro anni. Ovviamente pubblicando nel frattempo i singoli volumi, man mano che sono finiti. Il processo di correzione con Elena è lunghissimo. Le bozze vanno e vengono, in un ping-pong estenuante. Lei è molto esigente, che non ci siano imprecisioni, contraddizioni temporali, refusi. Ma il piacere continua, per anni.
Ogni volta che arrivano le nuove pagine è festa. Viviamo sospesi nell’attesa dei capitoli successivi. Un’esperienza assolutamente nuova. Nulla ci aveva annunciato questo tsunami letterario. Solo una piccola conversazione, molto intensa, avvenuta anni prima tra noi e lei in riva a un lago.
Avevamo parlato di famiglie, del posto delle donne nelle famiglie di provenienza e in quelle in cui si entra da sposate. Elena aveva accennato a una festa di matrimonio. Ce la siamo ritrovata nelle ultime pagine della prima parte, anni dopo.
Il testo è un estratto dal libro di Sandro Ferri: “L’editore presuntuoso”, in uscita il 19 gennaio per edizioni e/o
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