Se fosse uscito negli anni Settanta, Elegia americana di James David Vance sarebbe stato un libro di quelli che leggevano solo i comunisti. Se ci guardi dentro, trovi foreste appalachiane piene di fabbriche, e dentro quelle fabbriche operai sporchi, poveri e innamorati, un’umanità impura ma forte, per anni rimasta silenziosa e inascoltata in attesa di questo suo figlio capace finalmente di darle voce. Un’America che – come suggerisce il titolo – appare tutta immersa nella luce idealizzata del passato; un’America lontana come un eden perduto, che «riempiva le chiese, coltivava le terre, faceva funzionare le industrie», e al cui posto oggi c’è solo «ruggine e rabbia».

Sarebbe piaciuto a Pasolini, questo giovane Vance, così tracagnotto e talentuoso, così diverso anche fisicamente dai suoi colleghi come fosse un animale di un’altra razza: un ragazzo tenace fino alla nevrosi, venuto su dal niente dell’Ohio, senza avere patrimoni né padrini, una famiglia disfunzionale alle spalle prima ancora che questo termine venisse coniato (dai suoi avversari), circondato da parenti disoccupati e alcolizzati ma sempre animato da quella feroce volontà di rivalsa che hanno i figli del popolo quando si giocano tutto e, a differenza dei loro colleghi borghesi, hanno moltissimo da perdere.

’ha detto durante il suo attesissimo discorso alla convention repubblicana a Milwaukee: «Sono cresciuto in una piccola città dell’Ohio. Sono cresciuto in uno di quei posti accantonati e dimenticati dalla classe dirigente di Washington».

Parlare per molti 

Chissà quante volte lo dirà da qui a novembre, e anche dopo, e dopo ancora, quando si candiderà come presidente fra quattro anni; e lo ripeterà se avrà vinto e ancora quattro anni dopo quando si presenterà davanti agli americani a chiederne la riconferma: saranno passati 12 anni, e Vance avrà ancora più di vent’anni meno di quelli che ha adesso Donald Trump: insomma, sembra uno destinato a durare.

L’origine umile che esibisce con l’orgoglio di una cicatrice di guerra è il vantaggio strutturale con cui può mettersi alle spalle gran parte della concorrenza: un’infanzia povera o ce l’hai o non ce l’hai, non la puoi comprare; e questo conta molto in un mondo dove l’“essersi fatti da soli” è la virtù che più di tutte incarna il Sogno Americano. Vance è la dimostrazione plastica di una convinzione appunto molto americana: e cioè che non nell’amore né nella santità risieda il riscatto dell’uomo, ma nell’ascesa sociale.

Guardo Vance e ho la presunzione di capirla, quella santa arroganza con cui rivendica l’inferno proletario da cui viene, quel “popolo” di cui tutti parlano ma che quasi nessuno, tra quelli che ne parlano, conosce davvero. 

Sono figlio di operai anch’io, non l’Ohio delle filiere del carbone ma la Puglia del calzaturiero desertificato dall’irruzione della Cina sul mercato mondiale a inizio Duemila; sono stato il primo di tutta la famiglia paterna e materna a frequentare un liceo: conosco quella maschera e quell’atteggiamento, glieli fiuto addosso, come fanno i bastardi dentro Game of Thrones – conosco la vergogna, il rancore, l’insicurezza, la rissosità, la tracotanza, l’ansia di riscatto, l’istintivo senso di superiorità.

Vance è di quelli che in un salotto affollato avrebbero sempre voglia di prendere di petto gli avversari e schernirli perché non sanno cosa vuol dire dormire con i fratelli nello stesso letto; convivere nella casa di una nonna insieme allo zio perché non si hanno i soldi per l’affitto; rubare i libri perché non li si può comprare; oppure comprarlo, un libro, e non poter più uscire perché non si ha più un soldo; oppure uscire, sì, ma far consistere l’uscita in lunghissime passeggiate perché non si hanno i soldi neanche per bere una birra.

Vance è di quelli che vorrebbero sempre chiedere agli avversari che lavoro fa il padre e godersi il loro imbarazzo quando ammettono, sì, che il papà fa l’avvocato, il professore universitario, il medico, l’ingegnere, sì ma questo “non conta”.

Conta invece. Conta moltissimo. Chiudere le bocche così, con la rabbia di classe e la forza di una motivazione che viene da più lontano e ha radici più collettive: il borghese parla solo per sé, il povero parla per tutta la sua classe, ed è questo il suo vantaggio strutturale.

Vance lo sa. Appartiene a quella categoria di uomini che non ha sopra di sé il Padre onnipotente e autoritario, simbolo di Dio o del Capitale, ma un padre molto più minuscolo, spesso fiaccato da dodici ore di catena di montaggio, un padre che non si vuole emulare o castrare ma piuttosto riscattare. Ci sono i nati sotto il segno di Freud e i nati sotto il segno di Marx: e forse, finito il Novecento della psicanalisi, è venuto il loro momento. Come dice Shakespeare nel Re Lear: «Dèi, è il momento di levarvi in favore dei bastardi!».

Strade parallele

Qualcuno ricorda forse Didier Eribon e il suo bellissimo Ritorno a Reims. La trama è semplice: l’autore, nato in un sobborgo operaio di Reims e poi riscattatosi fino a diventare celebre filosofo inurbato a Parigi, in occasione della malattia del padre torna al paese natio.

Lì osserva la devastazione umana e politica della sua famiglia di lavoratori passati nel giro di pochi anni dal Partito Comunista al Front National di Marine Le Pen, e si chiede: «A chi possono rivolgersi gli sfruttati e i disagiati per sentirsi rappresentati e sostenuti? A chi possono riferirsi, appoggiarsi, per fornirsi di un’esistenza politica e di un’identità culturale? Per sentirsi fieri di se stessi perché legittimi e allo stesso tempo legittimi perché legittimati da un’istanza potente? O, molto semplicemente: chi tiene conto di ciò che sono e vivono, di ciò che pensano e vogliono?».

È più o meno lo stesso schema di Elegia americana. La differenza più significativa è che l’autore di Ritorno a Reims è un filosofo gay militante ne La France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon, mentre quello di Elegia americana è il candidato vicepresidente di Donald Trump.

Se Vance non fosse Vance, potremmo leggere i due testi uno accanto all’altro come due letture sulla deindustrializzazione americana e francese. Che il più marxista, il più foucaltiano, il più queer dei filosofi della borghesia francese e il più accanito guerriero anti-woke della destra americana abbiano scritto due libri così simili, è una cosa che deve far sorgere almeno una domanda: l’idea socialista di Popolo è stata definitivamente monopolizzata dalle destre?

D’altronde, non sarebbe neanche la prima volta. Ma se fosse così, Elegia americana andrebbe letto in questo senso: come il manifesto di una destra più moderna, una destra socialista che mira a politicizzare la rabbia di classe, riappropriandosi dell’idea di Popolo nei termini di un Volk perduto che si rialza, si rimette in cammino, si riprende la Storia.

Un cortocircuito pericoloso

Quanto possa risultare pericoloso questo cortocircuito è sotto gli occhi di tutti. Davanti a un movimento di questo tipo, ogni sinistra deve prendere atto del bivio in cui si trova: o decide d’identificarsi definitivamente con il Liberal, coltivando la (legittima) vocazione a rappresentare il punto di vista di un’illuminata avanguardia borghese, oppure si tura il naso, si toglie dalla bocca gli allarmi antidemocratici e corre a disseppellire i vecchi attrezzi socialisti sepolti in giardino alla fine degli anni Ottanta; si ributti insomma verso gli ultimi, senza schifarsi né ritrarsi quando li troverà rozzi, retrivi, sessualmente regressivi, culturalmente triviali, e da lì inizi a ricostruire un linguaggio comune e popolare: un vocabolario del desiderio, del sogno e della nostalgia che non sia quello di elegiache nostalgie popolari così facilmente trasformabili in ucronie destorse.

Altrimenti potremmo ritrovarci molto vicini a quello che, paradossalmente, era stato il sogno delle avanguardie comuniste negli anni Settanta: un grande rivolgimento sociale, molto più complesso di quanto oggi riusciamo ad immaginare. Ma di destra.

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