- Sono cresciuto in un minuscolo sub-quartiere di Roma – lo stesso, apprendo con sgomento, dove oggi vive Giorgia Meloni – le cui vie sono dedicate a vincitori di medaglie d’oro.
- Ho sempre immaginato questi meritevoli sconosciuti ergersi sul podio della storia dopo aver sgominato altrettanto sconosciuti contendenti. Ma c’è un modo di vincere, di indossare una medaglia, senza cadere nei due binari classici della performance del maschile dominante: la forza aggressiva e la quieta autorità?
- La bromance tra Biden e Obama è stata suggellata da una medaglia commovente. E una medaglia sul cuore ci mostra un ignoto ragazzo di Botticelli, agli Uffizi. Questi simboli offrono un’alternativa a quel vincere come imperativo che Mussolini strillava nel 1940. Un’alternativa alla vittoria come cosa da maschi. Il testo fa parte del nuovo numero di Cose da maschi, la newsletter di Domani dedicata a nuovi e antichi paradigmi di genere. Per iscriverti clicca qui.
Vincere. Com’è arduo divorziare questo predicato, che suona imperativo anche all’infinito, dalla violenza: da una condotta immancabilmente marziale e virile al di là del corpo che la adotti. Com’è difficile divorziarlo dal fascismo, voglio dire, di cui è irrimediabilmente motto: da quel grido di Mussolini, in realtà stridulo, che riecheggia sovente su Rai Storia, nelle imitazioni e nei sinistri omaggi nostalgici, o nell’interminato dedalo delle clip in bianco e nero su YouTube.
«Dov’è la Vittoria?» domanda febbrile ai fratelli d’Italia l’inno della mia nazione; giacché Iddio la creò addirittura schiava nostra, di Roma, e bisogna riacchiapparla perché se ne ricordi. Non è una donna munifica che premia e incorona, quest’allegoria della vittoria nei versi di Mameli: non è la sorridente portinaia sull’uscio di una stanza dei trofei in cui ritrovarsi con chi ce l’ha fatta. È semmai una serva sfuggente, una bisbetica domata cui noialtri fratelli dobbiamo far presente chi è la padrona che ha diritto di tirarle i capelli. Le porga la chioma. L’Italia chiamò. Sì.
Il duca che non sapeva vincere
Ieri facevo lezione su Alessandro de’ Medici, il primo duca monarca della Firenze post Savonarola. Un uomo dal magnifico guardaroba, almeno per come lo vediamo nei mirabili ritratti (di Pontormo, Vasari, Macchietti) in cui ne sfoggia i corsetti, le armature cerimoniali, i vellutati mantelli funerari; cresciuto a Roma nella leggendaria corte umanista di Leone X (suo zio) dove già si vociferava che fosse in realtà figlio del papa stesso, o d’un altro cardinale mediceo destinato a succedergli sul soglio di Pietro, e di una domestica – ecco il punto – forse di origini africane.
Questo chiacchierato principe nero, una volta assurto al trono fiorentino, si faceva ritrarre nello splendore di tutte quelle cose da maschi per riaffermare agli occhi di ognuno la sua condizione di vincitore. Su quel trono Alessandro sedeva infatti al fine di resuscitare, dopo decenni di repubblica, il dominio d’una dinastia di raffinati banchieri: vinceva non solo per sé, ma soprattutto per la linea di signori che ufficialmente lo congiungeva a Lorenzo, a Cosimo il Vecchio, al mitico Bicci dell’argenteo Quattrocento.
È forse perché, coi suoi lineamenti fieri e i ricci capelli corvini, in quella linea di bruttini e gottosi appariva un intruso (tanto che in un ritratto postumo gli fecero improbabili occhi azzurri da nordico) che il duca moro di Firenze esagerava nella sua maschile performance della vittoria sulle famiglie avversarie, sul popolino populista, sugli altri papabili eredi che facevano dei Medici una House of the Dragon ante litteram.
Una studentessa, mentre proiettavo in classe il monumento a Ercole e Caco che Alessandro commissionò per eternare il proprio trionfo, ha commentato che quel duca non sapeva vincere. Troppi muscoli in quel marmo, troppe clave e barbe, troppa ansia di sottomissione. Facile preferire, passeggiando per piazza della Signoria, la statua eretta poco distante, per il suo bianchissimo successore dagli specchiati natali, dopo l’assassinio del principe nero: un Perseo femmineo di bronzo, lucido e con gli occhi bassi, che smorza in una leggerezza impossibile il truculento cadavere di Medusa sotto ai piedi alati. Una vittoria sobria, liscia, quasi «apologetic» come ha concluso la mia classe.
La forza e l’autorità
Il marmo muscolare di Bronzino o l’adolescente metallo ossidato di Cellini – due scultori peraltro amanti, nella vita e nell’arte, del corpo maschile, e che dalle sue forme ideali hanno cavato i paradigmi uguali e contrari della potenza e del soft power, della sottomissione forzata e dell’eroismo riluttante. Sono queste, le uniche due opzioni del vincere? La forza spiccia o la severa autorità? Thanos che spezza le reni di Hulk, sollevandolo con virulenza sull’astronave asgardiana, o Chris Pratt che sfodera la mano tesa del comando, da calmo domatore di velociraptor, in Jurassic World? Lo spavaldo ceffone del figlio gagliardo o lo sguardo del padre, che non deve neanche alzarsi dalla poltrona perché si capisca che bisogna fare silenzio?
Vincere di prepotenza è senz’altro inelegante, mussoliniano in senso caricaturale, maschile in modo tossico. Ma non è meno tossica la pace augustea imposta con fermezza da una vittoria fredda, come quella dell’imperatore Palpatine di Star Wars, imparentata con la lacrima di coccodrillo che scende sul volto del classico, predestinato eroe cristologico, che vince senza aver mai voluto combattere (la sposa alla fine di Kill Bill, Shinji al terzultimo episodio di Evangelion, Cassio vincitore sconfitto nel Giulio Cesare di Shakespeare).
Bisogna essere proprio perdenti, per non cedere alla tradizionale performance del maschile? O un modo c’è, fuori da questo bivio tra il gongolare e il prendersi sul serio, per indossare una medaglia?
L’opzione della medaglia
Alla fine della sua presidenza, Barack Obama ha assegnato a sorpresa a Joe Biden, allora suo vice, il più alto onore civile che si possa conferire negli Stati Uniti: la medaglia della libertà. Nel legargliela al collo l’ha chiamato un leone della storia americana, e lui si è messo a piangere.
All’inizio dei loro otto anni alla Casa Bianca pareva che dovessero competere: che il giovane rampante si fosse accollato il più anziano rivale, ormai consapevole di non poter vincere, solo per rassicurare gli elettori bianchi, e che lo avrebbe presto messo in una teca per dimenticarlo lì, con sua somma frustrazione di veterano della politica.
Il premio finale ha invece poi suggellato una fortunatissima alleanza affettuosa, generatrice di infiniti meme, su cui i media hanno costruito l’assai vincente mitologia della bromance tra i due affiatati leader – una mitologia che ha giovato all’immagine di Obama, e di cui la campagna vittoriosa di Biden si è poi nutrita profondamente.
Prima di studiare il Rinascimento pensavo alle medaglie in un’ottica di puro agonismo: roba da atleti, da militari, da valorosi solitari primeggianti, agguerriti o solenni. Sono cresciuto in un minuscolo sub-quartiere di Roma – lo stesso, apprendo con sgomento, dove oggi vive Giorgia Meloni – le cui vie sono dedicate a oscuri personaggi dai nomi improbabili, onorati a imperitura memoria perché vincitori di medaglie d’oro.
Ho sempre immaginato questi meritevoli sconosciuti (Lorenzo Brosadola, Leonardo Umile, Giuseppe Perego) ergersi sul podio della storia dopo aver sgominato altrettanto sconosciuti contendenti. Ci ho ripensato alla Scuola Normale, dove d’altronde ho studiato il Rinascimento, quando l’allora direttore accolse una nuova classe di matricole, fresche di vittoria al concorso ordinario, informandole che ognuno di loro aveva sconfitto non so quanti aspiranti normalisti per trovarsi lì.
Invece di festeggiarle, le investiva di una tetra responsabilità che mi ricordava quella che attribuivo alla toponomastica della mia zona. Come se Obama, invece di esprimere ammirazione per il vicepresidente nel premiarlo, si fosse congratulato per la sua supremazia sui molti altri che avrebbero potuto servire la nazione al suo posto: come se gli avesse consegnato una medaglia per separarlo dagli altri, invece che per unirlo a sé.
Fratelli d’Italia?
Nel Rinascimento (ecco cosa c’entra) si forgiavano medaglie a chiave, che attraverso simboliche immagini su una delle due facce rivelavano i segreti di chi era ritratto sull’altra. Gettoni senza valore monetario ma altrimenti preziosi, da esibire per dichiarare un’amicizia o un’appartenenza, una lealtà – come forse nel caso di un famoso ritratto botticelliano custodito agli Uffizi, in cui un enigmatico giovane mostra sul cuore la medaglia del trisavolo del duca Alessandro, Cosimo de’Medici.
Una medaglia non deve essere necessariamente una distinzione – cioè uno strumento per distinguere, per dividere qualcuno da qualcun altro. Premiare, decorare, non significa per forza separare, come vincere non deve forse significare sconfiggere.
Tutte le metafore di unione, di fusione, di fratellanza di cui si sostanzia l’inno di Mameli contraddicono, mi sembra, l’immagine della vittoria da cui sono partito qualche riga fa. Invece di competere, attivamente o passivamente, gli uomini di potere (come le donne che abitano i ruoli costruiti per loro senza infrangerne i paradigmi maschili) hanno l’opzione di farsi il tifo a vicenda: di vincere, addirittura, senza che nessuno perda, di celebrarsi fuori da un’economia di supremazia. E così di collezionare medaglie, come gli allenatori di Pokémon, senza che siano tolte a qualcun altro.
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