Gustav Mahler, Carl Jung, Francis Scott Fitzgerald e Norman Mailer. Ma anche Lenny Bruce, Heinrich Böll, Ingmar Bergman e Isak Dinesen (Karen Blixen cioè, per supremo snobismo citata con uno dei suoi pseudonimi secondari). Erano i nomi snocciolati da Diane Keaton-Mary Wilke compilando quell’Accademia dei Sopravvalutati che è una delle vette comiche di Manhattan. Era quel tipo di rottamazione sommaria dei miti, così congeniale all’intellighenzia modaiola newyorchese, che faceva bollire il sangue al povero Woody Allen del film.

L’errore di Cannes

Non è dato sapere se Greta Gerwig, col suo aroma di intellettualismo chic baumbachiano (aroma nel senso degli additivi che contrabbandano sapori fittizi nei prodotti industriali), coltivi un proprio elenco di grandi firme da demolire. Di certo, e non da oggi, Gerwig è al primissimo posto nella mia personale Accademia dei Sopravvalutati.

Trainata dagli stratosferici incassi di Barbie e dal suo femminismo da salotto, all’ultimo Festival di Cannes era stata chiamata a presiedere la giuria, e ha puntualmente dato il meglio di sé. Col fiuto speciale che contraddistingue l’autore di razza ha cestinato una Palma d’oro di elementare evidenza, Emilia Pérez di Jacques Audiard. Il Prix du Jury e quello per l’interpretazione all’intero cast femminile non bastano a tamponare lo scivolone.

Da iper-film che terremota i generi, Emilia Pérez ha rastrellato tutto il rastrellabile ai premi Efa del vecchio continente. Ha fatto il pieno ai Golden Globes: miglior film commedia/musical, miglior film straniero, migliore canzone e migliore attrice non protagonista, Zoe Saldana. È candidato per la Francia all’Oscar per il miglior film internazionale, ma slitterà fatalmente anche in altre cinquine. Con buona pace della signora Gerwig, è il capolavoro dell’anno 2024. Immagino i mal di pancia di Cannes. Una Palma francese in meno. Bingo.

Mélo, musical, drama?

Emìlia Pérez esce il 9 gennaio con Lucky Red. Ha senso. Il film scritto e diretto da Audiard non puoi vederlo annebbiato dalle bollicine o dalla doppia razione di tortellini: vale la pena di pazientare.
Mi è capitato di scrivere da Cannes per questo giornale che la pelle d’oca al cinema è una reazione emotiva di cui si stava perdendo memoria.

Puoi definirlo un musical-drama (Audiard preferisce parlare di Opera), ma è un UFO refrattario alle categorie. È un mélo flamboyant, fuori norma e fuori scala. È il racconto di un boss del narcotraffico che corona il suo sogno di diventare donna, torna in Messico e diventa una filantropa al servizio dei diseredati senza giustizia e senza futuro. Sulla carta è un canovaccio da polpettone, ma risucchia, sorprende, emoziona.

Ha proiettato una sconosciuta attrice transgender, Karla Sofìa Gascòn – tanto più oscura della sua comprimaria Zoe Saldana ma supremamente magnetica – nell’empireo dei premi più ambiti. Il musical convenzionale, puntando su canzoni e coreografie, edulcora i temi forti. Quello di Audiard, che ha affidato partiture e testi alla cantautrice francese Camille e al suo compagno compositore Clément Ducol, li potenzia. E sul finale spuntano – ultimo di tanti brividi – le note di Les Passantes, la canzone di Georges Brassens tradotta in italiano da Fabrizio De André, qui cantata in spagnolo da un lungo serpente di popolo.

Brassens e dintorni

Per tutti quelli che con Brassens ci sono cresciuti, vis-à-vis con un autore che odia i cliché almeno quanto odia le chiacchiere, questa è la prima domanda obbligata. Perché quella canzone, la sola cover del film, proprio in chiusura?
Audiard ha spiegato: «Il mio storico amico e cosceneggiatore Thomas Bidegain mi aveva fatto ascoltare una volta una versione strumentale di Les Passantes nel riadattamento di una band cubana. Quel ricordo mi è riaffiorato per il finale del film. Sapevo fin dall’inizio che il film si sarebbe chiuso con una processione, e che questa sarebbe stata l’unica scena girata davvero in Messico». 

Nessuna predilezione speciale per Georges Brassens. La risposta di Audiard: «È ovvio che ho un amore speciale per Brassens, sarebbe piuttosto difficile per uno come me non amarlo. Ma al tempo stesso è una piccola dichiarazione di francesità nel cuore della sequenza più messicana di tutte. Non era nei conti, ma la Francia ha scelto di farsi rappresentare agli Oscar da un film interamente parlato in spagnolo». 

Molte delle canzoni, così lucide e antiretoriche, potrebbero diventare inni di lotta autonomi. Al polo opposto, già spopola su YouTube la tenerezza lancinante di una ninnananna che è il de profundis della normativa etero, Papà. Per fortuna non è il tipo di film che mette tutti d’accordo. Da crediti, Audiard risulta aver collaborato ai testi che firma Camille.

Sorprende in un regista e sceneggiatore che non ha mai frequentato il musical e la canzone. «Ho dato suggerimenti, nient’altro. Camille mi aveva chiesto di fornirle per ogni canzone dei canovacci, degli appunti di partenza per i testi. Così per ogni brano le ho scritto le prime righe, diciamo uno schema di massima in forma di vers libres, senza la presunzione di improvvisarmi paroliere o poeta». 

Un film di genere "fluido”

Come in altri film di Audiard, è centrale anche in Emilia Pérez la nozione di frontiera. «Il confine – dice – individua sempre un conflitto, un momento A al di qua del confine e un momento B al di là. La cosa più interessante da analizzare è la condizione intermedia, e le frontiere sono ovunque, geografiche ma anche tra i sessi. È una fonte di drammaturgia inesauribile e appassionante. Definisce i migranti e può definire il concetto di malattia. Si potrebbe raccontare anche il desiderio, attraverso l’idea di frontiera e dei relativi pedaggi da pagare». 

L’idea forte, per il regista, è quella di «raccontare una tragedia cantandola». Magari non è stato il primo: il più trasgressivo dei musical, Dancer in the Dark di Lars Von Trier, Palma d’oro nel lontano 2000, finiva con una impiccagione. Per non parlare di West Side Story. Ma chi ha il coraggio di dirglielo? Il suo del resto rivoluziona la formula.

Racconta Audiard che lo spunto originale lo ha trovato in un romanzo di Boris Razon, Ecoute, dove tra i personaggi c’è un narcotrafficante che sogna di cambiare sesso. «Mi aveva colpito il vertiginoso contrasto tra l’iperviolenza e l’ipermachismo di quel mondo e il desiderio di dolcezza e femminilità. Razon non aveva sviluppato la storia: l’ho fatto io».

Il colpo d’ala però è associare la transizione di genere del personaggio a quella del film stesso, che dal narco-movie trasmigra nel mélo e nel musical, riscrivendo le regole codificate. «L’idea-base è che tutti quelli che entrano in contatto con Manita-Emilia subiscono una trasformazione. Ho un modello nel cuore, Teorema di Pasolini, con quell’estraneo che arriva e progressivamente disintegra una famiglia. Emilia cambia le persone, e di pari passo cambia anche la forma del film». 

Annoto che Karla Sofìa Gascón parla un discreto italiano. Ha un pedigree di soap ma negli anni ’90 a Milano lavorava nell’entertainment trash di Mediaset e RaiUno. Senza procurare nuove querele a Emiliano Fittipaldi, che ha già il suo bel carico di area governativa, ricordo un verso di Via del campo – puro De André – che fa giusto al caso. Parlava della sostanza da cui nascono i fiori.

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