- Due anni fa, quando salì sul palco per ricevere l’Oscar alla miglior fotografia, Alfonso Cuarón disse: «Si sa che Billy Wilder nel suo studio aveva un cartello con scritto: “Cosa avrebbe fatto Lubitsch?”; ecco, per me è: “Cosa avrebbe fatto Chivo?”».
- Chivo è Emmanuel Lubezki: tre Oscar consecutivi sulle spalle, i capelli raccolti in un codino che gli è valso quel soprannome, non proprio lusinghiero, la cui traduzione più vicina è “caprone”. Senza dubbio tra i migliori direttori della fotografia in circolazione. Forse, il migliore.
- C’è il suo occhio e il suo taglio così particolare dietro gli scatti che compongono il calendario Lavazza del 2022, dedicato ad attiviste e attivisti pronti, secondo quanto ci dicono, a cambiare il mondo.
Due anni fa, quando salì sul palco per ricevere l’Oscar alla miglior fotografia, Alfonso Cuarón disse: «Si sa che Billy Wilder nel suo studio aveva un cartello con scritto: “Cosa avrebbe fatto Lubitsch?”; ecco, per me è: “Cosa avrebbe fatto Chivo?”».
Chivo è Emmanuel Lubezki, nome che sa di Europa orientale, sebbene l’uomo che lo porta sia nato e cresciuto a Città del Messico. Tre Oscar sulle spalle, consecutivi addirittura, i capelli raccolti in un codino che gli è valso quel soprannome, non proprio lusinghiero, la cui traduzione più vicina è “caprone”. Senza dubbio tra i migliori direttori della fotografia in circolazione. Forse, il migliore.
Unica sequenza
C’è il suo occhio e il suo taglio così particolare dietro gli scatti che compongono il calendario Lavazza del 2022, dedicato ad attiviste e attivisti pronti, secondo quanto ci dicono, a cambiare il mondo. Fra loro il cantautore statunitense Ben Harper, che per l’occasione ha riarrangiato uno dei suoi più grandi successi, With my own two hands.
Per chi conosce il suo lavoro, pensare a Lubezki come a un ritrattista risulta bizzarro. Lui che si è fatto conoscere per la capacità di creare piani sequenza lunghissimi e straordinari, al limite della perfezione. Fece scuola la lunghissima scena in macchina ne I figli degli uomini di Cuarón: quattro minuti in cui accade di tutto, girati nello spazio claustrofobico di un’automobile, senza mai staccare. Fu quella a valergli, nel 2006, il premio Osella per il miglior contributo tecnico a Venezia, quando la mostra premiava ancora qualcuno che non fosse un regista o un attore (e una regista o un’attrice, beninteso).
La fotografia ritrattistica deve fissare un momento, le immagini cinematografiche di Chivo, al contrario, molto spesso fanno perno sul movimento della macchina da presa. Chi ha visto Gravity ricorderà la sua lunga sequenza introduttiva, anch’essa (apparentemente) senza tagli. Fino ad arrivare a Birdman di Alejandro González Iñárritu, che con sapiente mistificazione del montaggio realizzò ciò che già aveva provato Hitchcock in Nodo alla gola: un film che desse l’impressione di un’unica, enorme sequenza.
Tra film e fotografia
Quando incontro Lubezki subito dopo la presentazione del calendario non posso che chiedergli per prima cosa questo, quindi; ossia quanto cambi per lui, nel dare forma alle immagini, il lavorare a una fotografia invece che a un film. «È radicalmente differente. La prima fase, cioè quella di costruzione dell’immagine della persona, è simile. Ho lavorato con i miei soggetti come se fossero i miei registi». Un complimento non di poco conto, vista e considerata la sua filmografia.
Tra i sei protagonisti del calendario, l’entusiasmo della dottoressa Shamell Bell, attivista afroamericana che ha fatto della danza il linguaggio della sua lotta, rende perfettamente l’idea dell’emozione di lavorare con Chivo: «Non sapevo chi fosse, perché guardo pochissimi film. Quando l’ho incontrato ho pensato non fosse umano, è stata l’esperienza più trascendentale della mia vita. Credo di aver incontrato Dio ed è stato così anche per le persone che erano con me, piangevamo tutti».
Nella nostra rapida chiacchierata, Lubezki mi confida che in realtà la fotografia nasconde più insidie del cinema. «Se i miei colleghi mi sentissero mi ammazzerebbero, ma la verità è che in un film puoi lavorare a una scena sapendo che se una cosa non è al massimo ci sarà il montaggio, la continuità e tutto il resto ad aggiustarla. In una fotografia no, sei fottuto, hai solo quella possibilità. Ma questo è anche il suo fascino».
Dev’essere così, se i risultati sono quelli che abbiamo imparato ad apprezzare nei suoi lavori. Ma soprattutto se registi di enorme valore continuano a scegliere Lubezki come loro direttore della fotografia.
That’s Chivo
Oltre ai già citati Cuarón e Iñárritu, due dei tres amigos messicani che negli ultimi anni hanno conquistato Hollywood, la filmografia di Chivo conta nomi di rilievo assoluto. Terrence Malick lo ha voluto con sé per quattro film – The New World, The Tree of Life (palma d’oro a Cannes nel 2011), To the Wonder e Knight of Cups –, Tim Burton gli ha affidato la fotografia del suo Il mistero di Sleepy Hollow, i fratelli Coen quella di Burn After Reading.
Chivo sa porsi esattamente nel mezzo tra uno stile perfettamente riconoscibile e un’adesione completa alla visione di chi dirige il film. Sembra poco, ma è in realtà il dilemma che aleggia sul mestiere del direttore della fotografia. C’è chi lo considera un ruolo al servizio del film, il cui obiettivo quindi dev’essere mettere in atto le indicazioni del regista. E c’è chi si sente contributore attivo e non passivo e preferisce, non a caso, la dizione “autore della fotografia” in opposizione al semplice “direttore”. In mezzo a questi due poli ci sono tutte le sfumature del caso, Lubezki compreso. «A volte, come direttori della fotografia, ci prendiamo dei meriti che non sono neppure del tutto nostri», puntualizza, «Malick, ad esempio, ha una conoscenza enorme della luce, le immagini dei suoi film sono interamente merito suo».
Al netto di questo, lo stile di Chivo non è difficile da riconoscere. Quando sente qualcuno commentare che il calendario che ha prodotto è unico, la sua agente risponde sottovoce e con semplicità: «That’s Chivo». E Chivo è, anche e soprattutto, la capacità di giocare con la luce naturale. «Dipende sempre dal film, in realtà», mi spiega quasi schermandosi, «in The Revenant volevo usare solamente la luce naturale perché credevo fosse la scelta migliore per enfatizzare le emozioni dei personaggi e far immergere il pubblico nella natura selvaggia; c’è solo una scena con la luce artificiale ed è orrenda. Ma con Tim Burton, invece, ho usato solo la luce artificiale, anche per gli esterni».
Nuove tecnologie
A questo punto della nostra conversazione introduco l’argomento che non poteva essere omesso. È il dibattito che ha ormai soffocato ogni discorso su film e serie: la sala è in via di estinzione? Lo streaming la sta lentamente sgretolando? Un tema talmente onnipresente da essere sfiancante, ma riproporlo a Chivo ha le sue ragioni, perché il punto di vista fotografico può essere interessante. Tanto del lavoro dettaglistico di un direttore della fotografia si perde con la riduzione dello schermo. «Basta saperlo prima e adattarsi; non è vero che più grande è meglio, è semplicemente diverso», mi risponde lui rapidamente.
E se da un lato mi racconta: «Quando un amico mi dice che ha visto in aereo un mio film – un film pensato per il grande schermo e su cui ho lavorato pensandolo in grande – mi sento morire». Dall’altro ci tiene a far notare un aspetto non indifferente: «quando ero in Messico non avevo accesso al cinema europeo, non arrivava mai nelle sale. I film del maestro Storaro li ho visti tutti sul piccolo schermo. Lo streaming ha i suoi vantaggi, non mi piace chi dice che sia tutto da buttare, io trovo sia semplicemente diverso».
Prova di questa apertura di Chivo verso le nuove tecnologie è un cortometraggio diretto da Iñárritu, Carne y arena, che racconta in realtà aumentata il dramma delle immigrazioni dall’America Latina verso gli Stati Uniti. Da messicano che ha trovato il successo (anche) emigrando, lui mi dice sconsolato: «Lampedusa, gli Stati Uniti, in molti non capiscono che queste persone non migrano perché vogliono, ma perché non possono fare altro. Forse è una questione di educazione, non sono stati educati all’empatia».
Lo slogan del calendario di Lavazza per quest’anno è “Io posso cambiare il mondo”, nel salutare Lubezki gli chiedo se crede davvero che una fotografia o un film possano cambiarlo, il mondo. La risposta arriva decisa: «Credo che le immagini abbiano una grande potenza, maggiore anche delle parole. L’olocausto o l’11 settembre non li puoi spiegare, ma una foto li può far capire, può far sentire quelle emozioni. In questo modo può cambiare il mondo».
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