Addio al designer che si vergognava di essere un designer
Grazie al Deboscio - collettivo di intelligenze guidato da Davide Colombo - su Instagram abbiamo potuto bearci di un’immortale clip di Enzo Mari (1932-2020): è un breve video in cui segnando su una lavagna il percorso delle vette della creatività umana Mari parte da Piero della Francesca e Bach per arrivare al presente. Un presente dove le cose non è che vadano proprio benissimo, perché «Cosa si insegna oggi nelle nostre scuole, che cosa insegnano i nostri artistoidi? La libertà, la creatività… non esiste oggi parola più oscena, più malsana, della parola creatività (…) Si produce il nulla, la merda con la parola creatività».
Il video - del 2012 - era stato caricato su Youtube già anni fa e ovviamente nei commenti si era scatenata l’indignazione dei sensibili millennial offesi per lesa creatività; millennial forse iscritti allo IED o alla NABA - niente di male, ho molti amici IED e NABA - e che probabilmente fino a dieci minuti prima nemmeno sapevano chi fosse Mari.
Chi fosse, non dico arrivare a costruirsi librerie non proprio stabilissime con il suo leggendario Manuale di Autocostruzione del 1974 (si trova facilmente in pdf) ma almeno averlo sentito nominare di sfuggita, intravisto la combinazione nome e cognome a una mostra, letto il nome su Wikipedia.
La creatività di Mari
Ma quale era la creatività contro cui si scagliava Mari? Perché è strano ascoltare una persona che dedica con zelo monacale un’intera vita alla creazione di progetti - di ogni genere! - attaccarla così frontalmente, no?
Mari, iscrittosi senza titoli di studio all’Accademia di Belle Arti di Brera nel dopoguerra, forse invece qualche domanda se la faceva, e studiando, faticando, lavorando aveva trovato le risposte riuscendo a diventare Enzo Mari: uno che non è e non era ovviamente contro la creatività tout court, ma contro la creatività un tanto al chilo, contro il pensiero pigro, contro la fuffa che soprattutto nel design italiano era diventata come l’acqua nella storiella dei pesci di David Foster Wallace.
«Quale acqua?» un po’ come «Quale fuffa?», direbbe oggi il giovane pesciolino designer fuori dal Politecnico: Mari invece poteva essere contro la fuffa e aveva i titoli per esserlo con più di 1.500 progetti andati in produzione per aziende come Danese, Driade, Artemide, Alessi, Zanotta, Flou.
La coscienza dei designer
Mari però oltre a essere un designer era soprattutto la poco ascoltata coscienza dei designer, come diceva di lui Alessandro Mendini, e infatti da designer che si vergognava di esserlo - e che soprattutto negli ultimi decenni sapeva giocarci, su quel senso di vergogna - circondato da pigri e da fuffa, mal sopportava che quel genere di creatività da divano, canne, Peroni da 66 e indolenza da fuorisede fosse diventata dominante.
Non sopportava - e di nuovo, ci giocava molto e con intelligenza - che migliaia di studenti si laureassero ogni anno illudendosi di essere qualcosa - qualunque cosa - senza applicare un minimo di spirito critico, fatica, lavoro a seguito dell’intuizione.
«L’ispirazione è per i dilettanti, gli altri si mettono al lavoro e basta» non lo diceva Mari ma Chuck Close - altri attribuiscono questo immenso buonsenso a Kurt Vonnegut, fa lo stesso - e Mari probabilmente sarebbe stato d’accordo, dimenticandosi dei cinque Compassi d’Oro ricevuti in vita e che probabilmente neanche ricordava dove aveva riposto.
Merci brutte
Mari muore così nei giorni in cui una mostra lo celebra alla Triennale di Milano, e celebra un outsider perfettamente integrato - la mostra è curata da Hans Ulrich Obrist - uno capace di prendere posizioni antipatiche, di guastare la festa, di farsi dei nemici, di essere contro l’economia di mercato e l’obsolescenza industriale degli oggetti (peccato molto grave soprattutto quest’ultimo) e soprattutto contro i cicli delle mode.
Destinati a farci spendere soldi in merci peggio che inutili: brutte.
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