- La sera del 26 marzo 2017 Emanuele Morganti, un ventenne di Tecchiena, frazione del comune di Alatri, muore per le ferite riportate in seguito al pestaggio di cui è stato vittima davanti a un locale nel centro della città in provincia di Frosinone.
A Colleferro molti testimoni hanno chiamato le forze dell’ordine, invece la sera dell’omicidio di Emanuele i buttafuori del locale di Alatri, pur coinvolti inizialmente nell’accaduto, non risulta lo abbiano fatto come le trecento persone presenti, che restarono inerti davanti all’aggressione.
Nei nostri piccoli centri non c’è mafia, possiamo però dire che spesso c’è una para-mafia, gruppetti che imbrigliano le verità e tendono a “mettere le cose a posto”.
La sera del 26 marzo 2017, quando si diffuse la notizia della morte di Emanuele Morganti, le sue fotografie prese dai social avevano già riempito giornali e web fin dalla notte tragica a cavallo tra 24 e 25 marzo in cui un “branco” di violenti lo aveva lasciato a terra in fin di vita ad Alatri, in Piazza Regina Margherita.
Stessa cosa la mattina del 6 settembre 2020, alla notizia della morte di Willy Monteiro Duarte, massacrato a Colleferro in analoghe circostanze, giornali e siti web erano già pieni delle sue foto.
E’ la conseguenza della nostra vita “social”, anche i più riservati di noi, i più restii, esistono nel mondo virtuale al di la della propria morte. Accostando le foto dei due ventenni si può notare che si somigliano, sono sorridenti, hanno occhi vispi, spiritosi, sono due splendidi ragazzi cresciuti a soli 30 chilometri di distanza.
La stessa ferocia
I parallelismi tra le due vicende sono impressionanti: la stessa ferocia priva di inibizioni, le stesse dinamiche criminali, circostanze quasi identiche.
La madre di Emanuele si chiama Lucia come la madre di Willy. Non così simili le reazioni nelle ore e nei giorni seguenti infatti, a parte riti, parole di frustrazione, rabbia, articoli, considerazioni sociologiche, umane, antropologiche, fiaccolate, interventi sui social, nel caso di Willy c’è stata per fortuna una maggiore reattività delle istituzioni.
Nella vicenda parimenti tragica di Willy c’è qualche elemento di “speranza” in più rispetto a quella di Emanuele. Sarà che Colleferro è una cittadina diversa da Alatri, un po’ più aperta per via della sua storia industriale e operaia, ha un sindaco più dinamico, così Paliano, paese di residenza di Willy è meno frammentato di Tecchiena, la frazione di residenza di Emanuele.
A Colleferro molti testimoni hanno chiamato le forze dell’ordine, hanno reagito, mentre la sera dell’omicidio di Emanuele i buttafuori del locale di Alatri, pur coinvolti inizialmente nell’accaduto, non risulta lo abbiano fatto come le trecento persone presenti, che restarono inerti davanti all’aggressione.
Nel caso di Willy le testimonianze che emergono sembrano meno vaghe e qualcuno ha fatto video con lo smartphone mentre, incredibilmente, nessuno dei trecento presenti all’omicidio Morganti pare abbia ripreso un solo fotogramma, nonostante il linciaggio di Emanuele sia durato tra i 15 e i 20 minuti. Lascia ben sperare la reattività dei testimoni del caso Willy, fa pensare che durante il processo non accadrà ciò che invece è accaduto durante il processo Morganti.
Chi ha seguito quel processo ha constatato che al dolore della morte di Emanuele, l’andamento delle udienze ha via via aggiunto un livello di sgradevole tensione che la famiglia Morganti ha subìto fino allo sfogo, male interpretato dalle videocamere, all’uscita del tribunale l’indomani dell’emissione della sentenza che, derubricando il reato da volontario e preterintenzionale, mandò assolto l’imputato Franco Castagnacci per non aver commesso il fatto e condannò a 16 anni gli altri tre, Mario Castagnacci figlio di Franco, Paolo Palmisani e Michel Fortuna, tutti e tre agli arresti domiciliari anche se in scadenza, nell’attesa dell’Appello che avverrà il 19 novembre a Roma.
Vittime, carnefici, vicini di casa
Il processo Morganti si è aperto il 17 ottobre 2018 ed è arrivato a conclusione il 26 luglio 2019. E’ un processo “esemplare” proprio per la difficoltà a raggiungere la limpidezza delle testimonianze in un luogo in cui i testimoni conoscono sia la vittima che il carnefice e nel quotidiano hanno a che fare con entrambi, con le loro famiglie e frequentazioni.
Dalla disamina dei comportamenti tenuti sul luogo del delitto, il processo Morganti ha fatto emergere dettagli raccapriccianti sul comportamento degli aggressori prima durante e dopo l’assassinio, ma anche su quello dei non aggressori, cioè di tutti coloro che non hanno fatto granché per evitare il peggio, facendosi spettatori passivi di un rito brutale e insensato.
Le testimonianze in aula hanno reso bene l’idea di un nutrito gruppo di individui senza freni inibitori, un contesto insano che ha inghiottito la vita di un ragazzo, un “branco” che i testimoni, a parte qualche significativa eccezione, hanno faticato però ad individuare, infatti a colpire nei momenti chiave sembra fossero solo corpi e volti indistinguibili, ombre.
Eppure le indagini, con fatica, avevano tirato fuori dall’indistinto alcuni “soggetti” privi di scrupoli, con una vita a dir poco “sopra le righe”, gangsteristica, emersa anche durante il dibattimento, spiattellata sui social in modo da sembrare un “gioco” dell’immaginario, con citazioni di film e serie, ostentazione di armi e atteggiamenti sguaiati. Profili social del tutto simili a quelli degli aggressori di Willy.
La storia romantica dei “fidanzatini” che aveva campeggiato sui quotidiani e nel talk, e che è rimasta in testa agli spettatori oltre che agli addetti ai lavori, ha colpito l’immaginario anche se sostanzialmente falsa. La dinamica dell’assassinio emersa via via dalle indagini e dal processo è molto più cruda a partire dall’innesco: un ubriaco, soprannome “l’Albanese”, colpisce Emanuele provocandolo e i suoi sodali aggrediscono la vittima anziché bloccare il provocatore, così i buttafuori che spintonano brutalmente Emanuele gettandolo per strada dove viene aggredito di nuovo dal “branco” e ucciso.
I familiari di Emanuele si sono sempre presentati compostamente in aula indossando abiti da cerimonia e una rosa bianca con fiocchetto rosso ciascuno, anche se al presidente, ad un certo punto, quei fiori e quelle magliette hanno dato forse fastidio e ha ordinato di toglierle di mezzo.
Anche senza le magliette in quell’aula è rimasta lì ad aleggiare l’immagine di Emanuele, ribadita anche da molti testimoni della difesa, circondato da persone ostili, violente, pressoché solo in quella piazza, in continua fuga dagli assalitori. La sentenza di primo grado sembra non fare i conti fino in fondo con questa verità scomoda.
La solitudine della vittima ha gettato un’ombra sul processo stesso che si è via via infittita a causa di testimonianze poco chiare per via di una incredibile difficoltà nel ricordare i fatti da parte di troppi testimoni, sommata ai limiti di molti testimoni nell’articolare un discorso coerente in italiano come in dialetto. Un uso della lingua disfunzionale che non si giustifica con l’essere andati poco a scuola. Ragazzi nel panico dinanzi all’uso del pronome allocutivo “Lei”, usuale in aula. Il Presidente più volte, sconsolato, ha dovuto dare e farsi dare del “tu”.
Problemi espressivi che hanno contribuito a rendere molte testimonianze ancora meno chiare. I testimoni di origine albanese o rumena sono risultati più cristallini. Si potrebbe ipotizzare che questa difficoltà linguistica abbia un risvolto meno sociologico. In certi frangenti si ha avuto la sensazione di una mancanza di libertà, di trasparenza, sia nei testimoni della accusa che in quelli della difesa, che insieme ai vuoti di memoria ha prodotto la sgradevole sensazione di un sottile opportunismo di molte testimonianze.
La madre di Emanuele durante le udienze, ha più volte sussurrato: «Questi ragazzi che non sanno cosa dicono quando parlano, mi fanno tanta tristezza». Più di qualche testimone, inizialmente ritenuto attendibile, ha ritrattato le deposizioni giurate e si è fatto incriminare per falsa testimonianza, davanti ai pm e al presidente allibiti, pronti a spiegare le conseguenze non banali di una simile condotta qualcuno ha esclamato: «Vabbè… E che me ‘mporta». Per non parlare di testimonianze di amici e persino parenti di Emanuele che a domande semplici come: «Ma lei ha mai visto Emanuele esercitare violenza?» hanno risposto: «Eh, a quindic’anni l’ho visto litigà co’ uno».
Omertà senza mafia
Si spera che nel processo per la morte di Willy Monteiro Duarte certi comportamenti non si manifestino. In questi piccoli centri non c’è la Mafia, a Colleferro poi c’è anche un bel presidio di Libera e un tessuto sociale meno compromesso. Poi gli aggressori sono originari di Lariano. Anche se bisogna vigilare, perché laddove tutti si conoscono e sanno dove abiti tizio e caio può scattare qualcosa di più insidioso dell’omertà, qualcosa di più opportunistico.
Una delle questioni, apparentemente marginali, emerse dal processo Morganti è infatti l’esistenza di reti di piccoli interessi che imbrigliano le persone. Quella sera ad Alatri, qualcuno tra gli amici di Emanuele, anziché chiamare i Carabinieri chiamò lo zio «perché se ce foss stat iss…», se ci fosse stato lui avrebbe messo le cose a posto. Poi lo zio infatti s’è ficcato nel lutto dei Morganti, rinverdendo l’antica amicizia che nel paese è inevitabile, ma la prontezza di Melissa, sorella di Emanuele, lo ha allontanato. Quello “zio” poi, un anno dopo l’assassinio di Emanuele, è stato arrestato per spaccio.
No, nei nostri piccoli centri non c’è mafia, possiamo però dire che spesso c’è una para-mafia, gruppetti che imbrigliano le verità e tendono a “mettere le cose a posto”.
Questa rete di piccoli interessi legata per lo più allo spaccio è certamente figlia dei tempi e dello sviluppo diseguale, imperfetto, dei nostri territori, della mancanza di risorse, a volte anche della scarsa scolarizzazione, ma anche di scorciatoie socialmente accettate.
Come nelle periferie urbane, imperversano dei bravi ragazzi un po’ agitati, figli di persone che conosciamo e che quando la fanno grossa chiamiamo “bulli” o “bestie” ma sono tanto temuti quanto ammirati, perché emulano questo o quel personaggio dello spettacolo, questo o quel politico, questo o quel gangster del cinema o della realtà.
Sono Quei bravi ragazzi che comprano auto che non potrebbero permettersi e una sera dopo aver “pippato” un po’ troppo, ammazzano l’innocente che si trova lì “nel momento sbagliato nel posto sbagliato”. Non sono mafiosi, ok, li conosciamo, li tolleriamo, li temiamo e a volte chiediamo loro aiuto per qualche nostra difficoltà… ma sono assai pericolosi e, a volte, ce ne accorgiamo un po’ troppo tardi.
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