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Quello che prepara Barbar è uno degli shawerma più famosi di Beirut, nominato dalla Cnn come il migliore al mondo nel 2013. All’angolo di Baalbek street c’è già gente in coda, però mi dicono di tornare fra un’ora.
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Camminando per le vie del centro la desolazione dei tantissimi locali al buio è sconfortante. A Hamra non si sente lo schioppettio dell’olio che frigge i felafel, e i gestori sono seduti sull’uscio in attesa che il governo conceda qualche ora di elettricità per poter lavorare.
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In un paese temprato dalla storia a sopportare e a fare di necessità virtù, anche l’alimentazione quotidiana subisce le conseguenze della crisi che imperversa nel paese.
Mancano dieci minuti a mezzogiorno e a Hamra stanno per ripartire i generatori. Non avevo mai visto gli enormi coni di shawerma di Barbar immobili e crudi, in genere cuociono senza fermarsi fino a scomparire tra le fette di svariati panini. Ma siccome senza elettricità non si aziona nemmeno la macchina del cibo di strada, l’enorme fiamma verticale è spenta.
Quello che prepara Barbar è uno degli shawerma più famosi di Beirut, nominato dalla Cnn come il migliore al mondo nel 2013. All’angolo di Baalbek street c’è già gente in coda, però mi dicono di tornare fra un’ora, dato che quelle masse di carne di pollo e agnello hanno bisogno di tempo per cuocere.
«Stai attento alla carne», mi aveva avvisato un amico libanese mentre mi dava il benvenuto in città. «Senza corrente i frigoriferi vanno a singhiozzo, difficile conservare bene il cibo». Certo molti ristoranti pur di tenere in funzione le loro celle si sono procurati dei generatori, che però per partire hanno bisogno di gasolio, altro prodotto introvabile in Libano in questi mesi.
Memore degli avvertimenti, aspetto di vedere la carne ben bruciacchiata sullo spiedo prima di ordinare il mio shawerma, per essere sicuro di evitare contaminazioni. Ed è, come ricordavo, strepitoso.
Desolazione
Camminando per le vie del centro di Beirut la desolazione dei tantissimi locali al buio è sconfortante. A Hamra non si sente lo schioppettio dell’olio che frigge i felafel, e i gestori sono seduti sull’uscio in attesa che il governo conceda qualche ora di elettricità per poter lavorare.
C’è chi si adatta con fornelli a gas rabberciati sull’uscio delle botteghe per tenere alto lo spirito dello street food, ma a lungo andare la situazione è insostenibile.
Per mangiare carne in Libano, in questi mesi, occorre essere davvero motivati. E spesso non basta nemmeno lo scudo del miglior shawerma del mondo.
Arrivato a Beirut non sapevo che quello che era partito come un avvertimento da guida turistica si sarebbe trasformato in una piccola epidemia di dissenteria in tutto il paese. E così la sera stessa anch’io mi sottometto al dato statistico, con Imad che mi guarda scuotendo la testa, «Te l’avevo detto habiby». Sono talmente distrutto che decido di trincerarmi in casa per un paio di giorni e di evitare di mangiare carne, chissà magari per sempre, ma difendo la mia scelta: «Sarà stato il caldo».
In un paese temprato dalla storia a sopportare e a fare di necessità virtù, anche l’alimentazione quotidiana subisce le conseguenze della crisi che imperversa nel paese: una crisi economica, politica, sanitaria e psicologica, che oggi non fa prigionieri nemmeno a tavola. Negli ultimi mesi i libanesi devono infatti evitare molti prodotti. «Legumi e verdure sono molto più pratici», mi racconta Imad, «Perché si conservano più a lungo e senza deteriorare. Poi sono super nutrienti. Dimenticati il mio halloumi grigliato, niente latticini».
Senza elettricità
Nei gruppi WhatsApp circolano vademecum su come cucinare senza elettricità, o come mantenere meglio i cibi. «Con le melanzane sott’olio possiamo fare il makdous», esulta Imad. «Le melanzane ripiene di noci e peperoncino. Con lo zucchero le marmellate, che si conservano tantissimo».
Nei tanti di momenti di blackout in casa evito di aprire il frigorifero, colto da un’ansia da escherichia coli. Penso alle rare volte in cui salta la luce in Italia: dopo venti minuti mi sento quasi autorizzato dall’ufficio igiene a fare tabula rasa di tutto ciò che c’è nel frigo. In Libano ho imparato che il frigorifero regge i suoi 5°C per almeno tre ore, se non fa caldissimo anche quattro. Dopo cinque ore però la temperatura inizia a salire e i batteri sono in agguato.
«Per questo accendo il mio generatore ogni due ore e mezza», mi spiega il mio amico, «Così riesco a mantenere il cibo fresco. Io sono fortunato, posso permettermelo. Cerco di cucinare tutto quello che ho, non butto niente. Il freezer senza essere aperto resiste anche un giorno intero, ma meglio non rischiare».
Da quel momento il ciclo degli elettrodomestici avrebbe influito sul mio umore come se il frigo fosse una luna privata e la mia ansia un fluido in balia della marea. «Per cucinare dobbiamo ottimizzare le due ore di luce che abbiamo tra le sei e le otto. La luce salterà comunque, ma in caso c’è questo forno a gas: è piccolo ma ci salva la cena. In casa c’è solo vino libanese, niente pasta italiana – la Barilla costa dieci volte più di prima! – o prodotti importati. Sono diventati carissimi, e si fa comunque fatica a trovarli. Prima andava di moda la quinoa? Oggi occorre fare una rapina per permettersela. Ora a Beirut si mangia il farik, simile al farro, ricco di calcio e ferro e di produzione libanese. La frutta è poca, però ci sono i fichi di Miya, la mia vicina di casa».
Reinventare la produzione
Da quando la lira libanese ha perso quasi il 90 per cento del suo valore, i costi delle importazioni sono quasi quadruplicati, dunque oggi anche anche i beni di prima necessità sono beni di lusso. «Una manouche con zaatar e fomaggio prima costava meno di un dollaro, ora quasi dieci».
Dieci dollari per una focaccia con le spezie. «Inoltre nessuno vende più la versione col formaggio, farebbe lievitare il prezzo. Ora c’è solo lo zaatar. Per non parlare di prodotti come pannolini e assorbenti, che costano fino a 40 dollari. Vedi a importare ogni cosa che si consuma? Ma almeno il formaggio abbiamo iniziato a produrlo qui in Libano, come quelli italiani e francesi. Provalo», mi dice mentre affonda il coltello in una forma.
«È la nostra versione del parmigiano. Se vivessimo di soli prodotti locali non potremmo nemmeno fare l’hummus, perché i ceci non li coltiviamo. Ma siamo libanesi, stiamo reagendo, assaggia». È un ottimo formaggio, e per consistenza ricorda il parmigiano. Non è proprio la stessa cosa, ma evito di fare l’italiano noioso e gli dico sinceramente che è molto più buono di tanti altri che ho assaggiato in viaggio.
«Stiamo anche facendo la mozzarella libanese», esulta, «E lo chevre cendré! E ho sentito parlare di un ottimo zafferano coltivato vicino Byblos».
È difficile pensare alla cucina libanese senza uno shawerma, però. «Sbagli. Perché nei ristoranti libanesi si mangiano sempre i soliti piatti, mentre tantissime ricette tradizionali libanesi sono vegetariane, pensa solo al felafel
Senza carne la complessità della cucina libanese perde solo una parte delle sue sfumature. Usiamo questa crisi per scoprire altri sapori. Stasera ti preparo la moudardara, la conosci?».
Mai sentita nominare. «È una sorta di risotto, ma con lenticchie e cipolle. Tutto vegetariano, se avanza si conserva bene. Una botta di proteine, ferro, vitamina b, antiossidanti, in sostanza ti sto cucinando una beauty farm. Le lenticchie sono del mio vicino di casa, solo mi devi aiutare coi sassolini».
Scopro così che nelle lenticchie prodotte artigianalmente se ne annidano svariati, occorre quindi setacciarle a mano prima di cucinarle. Penso ai chili di pietruzze che ho cucinato a Capodanno senza accorgermene. «Eccone uno», Imad mi mostra il suo bottino come fosse una pepita d’oro dei fiumi del Klondike, «Questo ti avrebbe spaccato un dente».
Durante la cena salta la corrente almeno quattro volte ma la moudardara è buonissima. Mangiamo un po’ scomodi, a lume di candela – di quelle con la presa usb. Se potessi guardarlo bene in faccia, vedrei Imad soddisfatto. Anche una semplice cena, qui, per gran parte della popolazione è una corsa a ostacoli. Ma se c’è una cosa che ho imparato dai libanesi è che è impossibile annientare la loro istintiva capacità di dribblare le avversità. Ci potrà essere anche un solo sassolino in una zuppa, ma loro faranno di tutto per trovarlo.
Moudardara
Ingredienti per 3 persone:
2 cipolle;
500g di lenticchie;
70g di riso;
olio evo;
15 gr di zucchero;
sale qb.
Scegliete un buon podcast e mentre lo ascoltate lavate le lenticchie comprate dall’ortolano e poi sbarazzatevi di ogni eventuale sassolino.
Tagliate le cipolle a fette sottili e fatele soffriggere con un po’ d’olio per una decina di minuti, caramellatele nel finale aggiungendo tre zollette di zucchero.
Intanto buttate le lenticchie in acqua bollente e salata e cuocete a fiamma media chiudendo con un coperchio. Dopo una decina di minuti aggiungete il riso, che bollirà assieme alle lenticchie finché l’acqua di cottura non scomparirà e anche il riso risulterà tenero.
Versateci dentro le cipolle, fate scottare per un paio di minuti, aggiungete un cucchiaio di olio d’oliva e servite, magari accompagnando la moudardara con un’insalata di noci, semi di sesamo e uvetta.
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