Madre

di Anna Ferri

La maternità è un esercizio di equilibrio: riuscire a camminare dritta anche se il tuo centro si è spostato. Lo spazio di casa si riassume in un divano: vivo seduta con lei in braccio, il mio seno è cibo, cuscino, coccola, conforto. Mi ricordo di quell’amica che girava per casa a tette al vento che “tanto le ho sempre di fuori e cosa cambia”. Niente, in effetti.

Allatto al bar, al parco, sulla panchina, a casa di amici, al museo, a tavola si mangia in contemporanea: io che prendo bocconi di cibo dal piatto e lei che succhia il seno. Lo spazio della sua casa, invece, si riassume in me: spalle, braccia, seno, pancia, fianchi, mani, incavo del collo. Sono più vicina a un marsupiale che a un essere umano. Quando siamo sole viene in bagno con me, faccio la pipì con lei in spalla e mi lavo la faccia con una mano sola. Se l’appoggio si sveglia e piange, quindi decido di non farlo. La difenderò da lacrime e tristezza, il mio corpo come uno scudo avvolgente. Veniamo risucchiate in una quotidianità che ci vede in un esercizio di simbiosi costante e mentre lei guarda con stupore ogni cosa del mondo, io mi ritrovo a riscoprirlo attraverso i suoi occhi spalancati.

L’incanto della polvere in un raggio di sole, gocce di acqua da toccare, una pernacchia sul pancino, risate che tintinnano come campanellini. Il sonno diventa parte delle mie giornate, la stanchezza mi accompagna ovunque e quando mi guardo allo specchio non riconosco la figura che ho davanti: chi è quella donna sfatta e stanca? Cosa sono quelle pieghe sulla pancia? E i segni sul volto? Da quanto tempo non mi lavo i capelli? C’è ancora traccia di me, da qualche parte?

Sono sul divano, la piccola attaccata al seno, un leggero russare a spezzare il silenzio. Sento un cattivo odore che non riconosco – non è cacca, pipì o rigurgito di latte dolciastro e acido – provo a seguirne la scia e capisco che viene da me. Quell’odore che non riconosco è mio. Più precisamente, sono le mie ascelle. Vado su google e scrivo allattamento sudore puzza e scopro che gli ormoni possono cambiare l’odore della madre.

Mi viene da piangere. Il mio nuovo odore è una puzza. Smetto di annusarmi e di guardarmi allo specchio e cerco di immaginarmi com’ero – pulita, profumata, pettinata, quei jeans stretti in cui forse non entrerò mai più, nessun orario da rispettare, una birra in mano – e mi sembra di pensare a qualcuno che non vedo da tempo. Un’amica lontana. Forse potrei scrivermi una mail per sapere come sto. Se ho intenzione di tornare, prima o poi.

In queste settimane dondolo tra infinita felicità e sconcertante tristezza. Piango sotto la doccia per nascondere le lacrime tra le bolle del sapone, così che nessuno possa trovarle. Mi sento sbagliata, inadeguata, stanca, incompresa, sola. Nessuno te lo spiega al corso pre parto che dopo ci si sente così, che amore e fatica possono convivere e che si deve imparare a chiedere aiuto.

Un incontro intero per allenarsi ad allattare con la posizione rugby, usando bambolotti che fingono di essere bambini che fingono di essere palle, e quattro minuti per dire che il post partum può essere “un po’ complesso, a volte”. Ci vogliono madri felici, saltellanti, sorridenti e soddisfatte del nostro ruolo, adeguate in ogni aspetto. Invece dentro è come una tormenta e non c’è nessuno che dica che è normale, che non è colpa tua o di tua figlia. Che per adeguarsi alla nuova vita – condizione fisica, biologica, emotiva, sociale – a volte ci vogliono ore e a volte anni. A volte non ci si adegua mai.

Che va bene così, anche se non sei sempre felice, anche se ti viene da vomitare da quanto sei stanca, anche se ti sembra che tutti vogliano da te qualcosa che non sei sicura di sapere dare. Il post partum è un enorme buco nero, un tabù culturale. Se lo superi senza troppi danni poi vieni presa dal caos della vita e te ne dimentichi, come se fosse un brutto sogno. Se invece il danno è visibile allora vieni bollata come pessima madre: Ha avuto la depressione post partum, forse non è adatta. Riportiamola indietro, si può cambiare?

Padre

di Andrea Zanni

E quindi mi rendo conto che parte di questa adultità in cui mi hai gettato, caro Tommi, è abituarsi a sentirsi “eterodiretti”, con il baricentro completamente fuori da sé. Non sai quanto abbia ricercato questa sensazione, consapevole (anche se testardo nel provarci) che mai mi sarei mai bastato, che l’autonomia affettiva che ho così tanto ricercato è una gran cazzata, che nelle nostre cellule abita una millenaria storia mammifera che ci spinge, volenti o nolenti, verso gli altri.

È stato il mio corpo a volerti, per anni: i figli, lo scoprirai anche tu, prima con dolore e poi forse con sollievo, sono un atto di egoismo, di sopravvivenza. Non c’è molto di razionale, l’ho detto. Avevo bisogno io di te, quando ancora tu non c’eri. Avevo bisogno di sentirmi così importante per qualcuno piccolo e impotente come te.

Avevo bisogno di voler bene a qualcuno come ne voglio a te. So anche che questo mio volerti bene, un giorno, ci farà litigare, quando vorrai prendere in mano la tua vita, quando vorrai diventare il Tommaso che vuoi tu. La prima volta che hai dormito per la prima volta dai nonni, io già soffrivo l’abbandono. Ora io e te dormiamo insieme tutte le sere nel lettone: tutti quanti ci dicono che è sbagliato, che a quasi quattro anni devi dormire nella tua cameretta.

Ci ho messo un po’ a capire che il vero ostacolo a dormire da solo non sei tu, ma io. Certo, ti piace dormire insieme, ma piace anche a me. Non voglio davvero smettere di averti al mio fianco durante la notte, di guardarti mentre dormi, di sentire la tua presenza se allungo le mani.

Vederti crescere, già adesso, mi insinua in me il terrore: smetterai davvero di essere questo animaletto divertente, su cui posso riversare tutta la mia stupidità, tutto il mio amore, tutta la mia vulnerabilità?

Spero accada il più tardi possibile, e spero di trovare altri modi, come d’altronde fanno tutti i padri del mondo. Essere padre è rendersi vulnerabili, e io ne avevo una gran voglia.

Anna Ferri e Andrea Zanni in Madre padre, eBook edito da Il Dondolo (si può scaricare gratuitamente su tutti i portali MLOL o dal sito ildondolo.it) firmano i due racconti-saggi che vi proponiamo qui, in quella zona franca fra invenzione e confessione e testimonianza, che narrano la generazione di chi è diventato genitore a trent’anni, in una società tanto veloce quanto precaria, sperimentando su di sé la ricerca di modelli nuovi legati alle battaglie sull’identità, il femminismo, la destrutturazione del sistema patriarcale.

Quella che per molti era la generazione dei privilegi – niente guerre né rivoluzioni, i figli dei figli dei fiori, i nipoti dei partigiani, un’identità sempre in relazione a qualcuno di più nobile – si ritrova, assolutamente impreparata, ad affrontare, non più da figlio ma con le responsabilità di un genitore, la più grande crisi climatica, sanitaria, sociale, economica, geopolitica ed emotiva della contemporaneità. Nel farlo, prova a rimescolare le carte, a riappropriarsi della narrazione e a cambiare le cose.
 

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