Pochi mesi prima della sua morte, nel 1986, Altiero Spinelli aveva scritto nel suo Diario, a proposito della sua autobiografia – che è, sia detto per inciso, il più avvincente romanzo storico e di formazione del secolo scorso: «Non è solo l’espressione della mia personalità, ma porta con sé anche il segno che ho inciso nel tentativo compiuto nella seconda metà del XX secolo di realizzare l’unione federale dell’Europa democratica. Di quel segno nessuno si accorgerà se il tentativo fallirà, ma se riuscirà, nessuno potrà non scorgerlo».

La prima pietra

È un tema profondo e ricorrente nelle pagine di Spinelli questa alternativa: e non riguarda solo il riconoscimento o disconoscimento, ma la realtà profonda dell’opera della sua vita intera, cominciata ben prima dell’esilio a Ventotene, nel profondo delle carceri fasciste in cui Spinelli visse la sua giovinezza – dai suoi venti ai suoi trentadue anni. Gli anni di quel lungo «monologo sulla libertà», difesa in se stesso «contro i muri di pietre e quelli di idee», per la quale il giovanissimo dirigente comunista aveva «accettato di distruggere tanta parte di [sé]» sottoponendo il comunismo alla critica più articolata in senso etico, politico, economico – e profondamente umanistico. La libertà che aveva «aleggiato nello spirito di tutti i grandi»: lui li aveva «chiamati intorno a sé», e loro gli avevano «tenuto compagnia coi loro libri». (Come ho tentato di divenire saggio, Il Mulino 1984-86).

Perché, come dice un altro grande e misconosciuto nostro pensatore, Aldo Capitini, «ogni cosa umana è sorta sulla prima pietra di un’anima» (Elementi di un’esperienza religiosa, Cappelli 1990). È questa prima pietra, quest’anima, che fa la differenza nella realtà della “cosa” che uscirà dalle mani di molti. L’Unione europea è il frutto del più composito e contraddittorio insieme di spiriti attivi e circostanze reali (grandi e piccoli politici, movimenti, partiti, interessi, ideali, teorie e irripetibili contingenze storiche): ma che ne è di quella prima pietra? È rimasto “inciso”, in quella cosa, quel “segno”, il segno di quell’anima? O di quel segno nessuno si è accorto, perché l’immensa opera di quella vita, che le conferirebbe le dimensioni di quella di un San Paolo o di un Lutero della civiltà politica, è in verità fallita?

Riuscita o fallimento?

Ecco: a leggere il recente articolo del politologo Luca Passarelli (Domani, 23 agosto), Un’unione da costruire ogni giorno – La stella polare della pace, il respiro si allarga, inizialmente, e il cuore balza in petto: sì! Quel segno c’è, se davvero l’Unione a uno sguardo di oggi pare ancora «un ideale, un sogno, una speranza, una costruzione, una sfida», e addirittura «la più grande costruzione istituzionale, sociale ed economica degli ultimi cinquemila anni dell’essere umano sulla terra», «un caso unico nella storia umana».

Ed è tutto vero! Questo doveva essere, fino a un certo punto è stata, forse ancora potrebbe essere, l’Unione europea. Questo caso unico di un insieme di stati sovrani che decidono liberamente di cedere sovranità a uno stato migliore. Concepito e disegnato come una grande democrazia sovranazionale, e non come un organismo intergovernativo. Con un parlamento che fosse diretta espressione dei cittadini europei, e quindi una – storicamente inaudita, in fondo, anche rispetto all’Unione Federale americana – dissociazione completa del concetto di sovranità democratica da quella di nazione. Con una relativizzazione degli stati-nazione a regioni federali, rappresentate in una camera parlamentare, il Consiglio (non quello di ora, che è invece il vero organo esecutivo dell’Unione).

Con un suo proprio esecutivo sovranazionale ma realmente governante, la Commissione, diversa da quella di oggi, la quale elabora bensì, ormai, il 60 per cento della produzione legislativa nazionale, e tuttavia è totalmente azzoppata dallo strapotere degli stati membri dominanti sulle questioni cruciali. Quelle che, come nota anche Passarelli, riguarderebbero il completamento federale dell’Unione: oltre alla moneta, la spada e la bilancia. Dove l’autore ammette «un’accelerazione decisamente meno rapida» che per la prima materia. Già: «Il sogno federativo non è compiuto».

Stella polare che porta la pace?

Ecco il punto. Passarelli descrive benissimo il sogno, e con esso il “segno” spinelliano, e ci ritorneremo fra breve. Ma l’iniziale sentimento di adesione e speranza del suo lettore vacilla fino a collassare quando l’occhio si sofferma sul bellissimo passaggio della «stella polare portante la pace»: che «ha spesso oscillato, vacillato; ma mai ceduto». Come, mai ceduto! E la totale adesione dell’Alto Commissario Josep Borrell, della presidente della Commessione Ursula von der Leyen a una strategia che ammette la guerra come soluzione dei conflitti internazionali, cos’è? Che siano rimasti solo Prodi, il papa e il cardinale Zuppi a lamentare l’assenza, «a causa delle divisioni interne» di un «grande intervento di pace della Ue, del quale avremmo tanto bisogno”? (Avvenire, 24 agosto).

E cos’è l’imbroglio orchestrato in questa prospettiva ultra-atlantista ai danni della istituenda difesa comune, che davvero depotenzierebbe le velleità di politica estera autonoma degli stati membri? L’Ue, al contrario, ha promosso una arbitraria corsa al riarmo da parte di ciascuno di essi, basata per di più sul finanziamento europeo delle singole industrie belliche nazionali, sulla completa sovranità nazionale nell’impiego di questi fondi, e per colmo di beffa anche a spese del PNRR, con il famigerato decreto ASAP (Act on Support of Ammunition Production, Domani, 9 maggio 2023). Eppure lo vediamo bene, ormai, quanto sia stata tragica l’inesistenza politica di un’Europa garante dei diritti individuali e dei popoli, cioè chiamata a risolvere pacificamente i conflitti prima che diventino guerre, nel mondo che ha preceduto e preparato l’aggressione dell’Ucraina.

Le responsabilità tradite

E dopo la spada, vogliamo parlare della bilancia? Esternalizzare le barriere anti-migranti e fare affari a questo scopo con i peggiori autocrati ai confini d’Europa fa parte della giustizia in quanto garanzia dei diritti individuali, fra i quali il diritto umano riconosciuto dalla Dichiarazione Universale e quindi adottato dall’Ue di cercare asilo dalle persecuzioni (Art. 14), o anche per motivi economici (Art. 25)? Non dovremmo almeno ricordarci che il valore giustizia, giustizia globale, è l’omega della serie di sei valori della Carta dei Diritti dell’Ue, dove l’alfa è dignità, e in mezzo stanno libertà, uguaglianza, solidarietà e cittadinanza?

«Dimentica dei suoi ideali, sovversiva delle ragioni stesse per cui è nata», l’Unione europea «ha fallito sulle sue due massime responsabilità, la pace e l’immigrazione, le due massime cure in cui ne andava della sua identità culturale» (Raniero La Valle, Il Fatto Quotidiano, 29 marzo 2023). Se questo è vero, e mi pare difficilmente contestabile, non dovremmo noi che quel sogno l’avevamo a cuore gridare al fuoco, insorgere (democraticamente: le elezioni sono dietro l’angolo) contro la dissoluzione in atto di quel sogno nel delirio autistico-nazionalistico in cui ancora una volta gli stati europei stanno precipitando, invece di consolarci con false patenti stellari? No, non la sta portando, questa Europa, la stella polare della pace.

Un fiore sull’abisso

«Veramente tutta la civiltà umana è auf Nichts gestellt (fondata sul nulla), un fiore su un abisso. E gli uomini sono attratti nel loro insieme verso l’abisso. Solo chi ama edificare va contro corrente, e talvolta riesce. Ma la tentazione di rinunciare a costruire, di lasciarsi andare verso il basso, la sente anche lui…». Così scriveva Spinelli nel suo Diario il 2 dicembre 1950. Grazie a Luca Passarelli di averci ricordato qual era il sogno. Ma guai a distogliere lo sguardo dall’abisso che minaccia dall’interno anche «l’azione che edifica». Perché «se riesce è divina. Se non riesce non è nemmeno diabolica. È un gesticolamento inutile e superfluo».

 

© Riproduzione riservata