L’autore dei best seller: «Fin da ragazzino non sono mai stato sedotto dalla specializzazione. Non ho mai voluto fare una cosa e diventare molto bravo in quella cosa soltanto. Non è tanto per la ricerca della felicità quanto perché ho questa consapevolezza di avere una vita sola e voglio provare più cose possibili».
Questo articolo è tratto dall’ultimo numero di Finzioni
Nel tuo ultimo libro Tutto è qui per te, Mondadori, un personaggio dice al protagonista: «Sei un fuoriclasse della prefazione, degli inizi, poi però le tue attenzioni sfumano e piano piano vengono a mancare, allora cambi perché hai bisogno di stimoli nuovi, di nuove conquiste», mi sembra un po’ il fil rouge della tua opera.
Sì, della mia vita più che altro.
C’è sempre questa ricerca della felicità che si sposa con la ricerca della novità.
Fin da ragazzino non sono mai stato sedotto dalla specializzazione. Non ho mai voluto fare una cosa e diventare molto bravo in quella cosa soltanto. Non è tanto per la ricerca della felicità quanto perché ho questa consapevolezza di avere una vita sola e voglio provare più cose possibili. Pensa ai campioni dello sport, prendi ad esempio un nuotatore che vince una medaglia d’oro ma è da quando ha 7 anni che passa 8 ore al giorno in piscina… ecco, per come sono fatto io, la medaglia d’oro non ripagherebbe mai il tempo perso.
In un tempo non lontano, in effetti, la ripetitività necessaria allo sport era concepita come una cosa un po’ ridicola e assurda, ne parla in questi termini Musil ne L’uomo senza qualità, ad esempio.
Gli sportivi fanno una vita di inferno, basta leggere Open di Agassi, guardare il documentario di Michael Jordan o sentire le interviste di Ronaldo in cui dice che torna dalle partite all’una di notte e invece di andare a casa come tutti si mette nel ghiaccio perché così il giorno dopo può performare meglio. Sono ossessioni. Io ho avuto un’ossessione del genere ma con il lavoro in generale, perché poi è vero che senza l’ossessione è difficile raggiungere dei risultati, la passione non basta. Io però ho sempre evitato la ripetizione. Per cui viaggio tanto, mi piace incontrare gente nuova, fare cose nuove, avere stimoli nuovi, sono sempre curioso di quello che non conosco.
Ci sono state anche delle costanti nella tua vita?
La costante sono stati la radio e poi anche i libri, la radio perché un posto fisso lo dovevo avere per il mutuo (ride). No, in realtà, la radio è proprio la mia passione assoluta. C’è stato un momento nella mia vita in cui facevo la tv, la radio, il cinema e i libri e se avessi fatto solo libri e cinema avrei avuto, come dire, “un percepito” più alto, perché la radio è sempre vista come una cosa minore. La verità è che ho proprio seguito la mia passione: potrei rinunciare a tutto, anche alla scrittura, ma a rinunciare alla radio farei fatica.
Vedi una continuità fra la radio e la scrittura?
Si dice sempre che la radio sia un po’ la sorella della televisione ma secondo me è la sorella della scrittura perché entrambe portano ad usare l’immaginazione: se io dico in radio o scrivo in un libro «una casa col tetto rosso in riva a un lago in Canada» tu la devi immaginare, ma se io sto facendo cinema o tv è il regista che decide com’è quella casa, com’è quel tetto rosso. Quindi la magia dell’invisibile appartiene alla radio e ai libri, ed è la cosa con cui a me piace di più giocare: mi piace creare delle immagini nella testa degli altri.
E quali sono invece le differenze?
Scrivere è una cosa che puoi fare ovunque e decidi tu gli orari, non hai i tempi dell’ufficio, puoi scrivere in qualsiasi parte del mondo mentre fino a qualche anno fa la radio ti obbligava ad andare fisicamente in quello studio, in quella via, di quella città. Oggi che anche la radio si può fare da dovunque io avrei realizzato il mio sogno se non fosse che ho dei figli piccoli e questo un po’ mi limita.
In realtà sin da giovane conducevi dei programmi tv che ti permettevano di stare in giro per il mondo.
Sì, ho fatto Italo-spagnolo da Barcellona in diretta, poi Italo-francese da Parigi, poi Italo-americano in giro per gli Stati Uniti. Erano anni meravigliosi: c’erano i soldi, le idee e gli imprenditori; adesso invece ci sono i manager e non ci sono i soldi.
Cosa è cambiato?
L’imprenditore e il manager hanno proprio due attitudini diverse. Se hai un’azienda, sei un imprenditore e credi fortemente in un prodotto, se lo metti sul mercato e all’inizio non funziona tu comunque insisti. Magari perdi il primo anno, perdi il secondo, perdi il terzo e il quarto vai in pari, e poi incominci a guadagnare. Il manager invece alla fine dell’anno deve fare +0,01 e gli basta questo per garantirsi il lavoro. Sono due atteggiamenti diversi. Quando ho iniziato a fare Le Iene era il secondo anno del programma, avevano fatto il primo anno che era andato male, ma Giorgio Gori ci credeva tantissimo e ha fatto il secondo anno – cioè il mio primo. Andò un po’ meglio ma solo dal terzo anno diventò il programma di successo che è ancora in onda. Oggi se un programma non funziona subito lo chiudono, in più per non rischiare si copia già in partenza, c’è una specie di algoritmo della povertà creativa. Non c’è coraggio, se va la canzone latinoamericana allora fanno tutti grandi show del sabato sera con le persone che si esibiscono, se va MasterChef allora si fanno altri 60 programmi di cucina, è tutto un po’ così perché bisogna fare lo 0,01 a fine anno.
Il pubblico della tv si è anche molto ridotto ed è invecchiato.
La televisione si vede meno anche perché una volta se volevi vedere, ad esempio, Le Iene, alle 8:30 dovevi essere a casa, adesso dici «vabbè se non lo vedo stasera me lo guardo domani sull’iPad». Non c’è più la corsa di tornare a casa, poi ci sono le piattaforme, ci sono i social, ci sono tanti modi per essere intrattenuti.
Il tuo preferito, però, rimane la radio.
Sì, in assoluto la radio, però quando la faccio, per il resto non l’ascolto quasi mai.
La regola di Notorious B.I.G.: non usare quello che vendi. E cosa fai allora?
Leggo libri e uso molto YouTube perché mi piace imparare: lì c’è un mondo intero di contenuti, posso guardare lezioni di storia, di filosofia, basta che mi diano qualcosa perché non ho mai amato tanto essere intrattenuto per essere intrattenuto. Mi infastidisco da morire l’idea di mettere in stallo il cervello finché non arriva l’ora di andare a dormire.
Il vantaggio con internet oggi è che scegli quello che vuoi vedere o sentire, è possibile essere meno passivi.
Esatto, poi l’algoritmo talvolta è positivo perché ti suggerisce cose simili, altre volte sempre per lo stesso motivo invece è limitante, per questo ogni tanto guardo Spotify sul telefono dei miei amici, mi serve per scoprire della musica diversa altrimenti mi arrivano sempre le stesse cose che più o meno già conosco. Quando ero un ragazzino, chi gestiva il negozio di dischi o di libri e ti diceva «gGuarda se ti è piaciuto questo allora ascolta questo» era un po’ l’algoritmo umano, poi però rispetto all’algoritmo ogni tanto ti diceva anche «guarda è uscita questa cosa che non è il tuo genere, però ascoltala».
Il rapporto con il pubblico che hai facendo radio ti è utile per scrivere?
Ho un contatto più diretto con il pubblico rispetto, ad esempio, a quello di un attore, ma questo non mi condiziona tanto, nell’inventare una storia non sono mai partito dall’idea che possa funzionare o piacere al pubblico. Scrivo qualcosa che piacerebbe leggere a me, il riferimento è sempre a una mia parte intima ed è con quella che dialogo quando scrivo. Poi questo è il tredicesimo libro e devo dire che in un certo senso ho imparato un mestiere, quindi ora so che ci sono cose che funzionano, ma non parto da quello.
L’altro giorno ti ho sentito arrabbiatissimo per dei commenti degli ascoltatori.
Avevo visto un servizio di Report sul ponte di Messina, ne ho parlato in onda e mi sono arrivati un’infinità di messaggi. Mi infastidisce perché non si riesce più a fare un discorso di senso. A casa mia con mio padre e mia madre si facevano discorsi magari non intelligentissimi ma erano sempre discorsi di senso. Invece oggi tutto è politico, ma soprattutto è ideologico, e l’ideologia è proprio quello che ti leva lucidità. Nel servizio di Report si parlava di una società che aveva preso 300 milioni ed era stata chiusa senza fare niente e dopo averlo detto in onda subito ho ricevuto messaggi del tipo “voi comunisti, voi di sinistra”. Ma cosa c’entra? Siamo tutti italiani, paghiamo tutti le tasse, non so nemmeno se erano di destra o di sinistra quelli della società, non mi interessa. C’è però una specie di ipnosi collettiva per cui non c’è più una formulazione del pensiero originale, qualsiasi cosa che dici sembra che ti debba in qualche modo posizionare. Si guarda solo a chi l’ha detto per poi decidere se va bene oppure no. Ogni tanto in radio dico delle frasi senza rivelare l’autore e le persone fanno fatica a capire se sono d’accordo o meno perché hanno bisogno di sentirsi dire l’ha detto Schlein, l’ha detto Meloni, l’ha detto La Russa.
Personalmente chiamo questo fenomeno tribalismo.
Esatto, sì, per cui ad esempio se faccio Le Iene e scrivo per Mondadori allora devo essere berlusconiano per forza, però se vado a lavorare a Rai Tre sono per forza comunista, poi siccome non sono nessuna di queste cose allora sono qualunquista, ancora adesso mi porto il nome di qualunquista che, per carità, va benissimo, però mi piace entrare e uscire dalle cose con la mia testa. Tutte le mattine invece ti devi schierare da una parte o dall’altra, ogni giorno devi decidere che maglietta mettere, da temi importanti come la guerra fino a Fedez e sua sorella. Quello che mi risponde in radio “sei comunista” quello è un arruolato, ma io non voglio combattere battaglie non mie.
Se l’intelligenza umana declina quella artificiale aumenta.
Io arrivo sempre tardi con queste cose, ad agosto ero a New York, stavo finendo il libro lì. Ho un amico che lavora lì da tanti anni, ormai in America la usano anche per mandarsi le mail. Stavo per chiudere il libro, mi mancava un pezzetto tra l’altro verso la fine perché io non scrivo in sequenza. Insomma ho chiesto all’A.I. di scrivere il finale in stile Fabio Volo e nel giro di credo 10 secondi mi ha scritto una pagina intera. La cosa mi ha impressionato perché non avrei usato certi vocaboli o certi aggettivi, però lì dentro c’erano delle cose interessanti, tant’è che non ho preso tutto ma qualche frase sì. È davvero una potenza, faccio fatica a non spaventarmi. Sarà anche perché sono vecchio, ma effettivamente è inquietante.
A proposito degli Stati Uniti, tu sei sempre stato molto attento a quello che viene fatto in America. Questo ha causato anche quello che scherzando chiami il tuo “Galileo Galilei moment”.
Io mi sono innamorato di questa serie TV che davano in televisione a New York, Seinfeld scritta da Larry David. Per fortuna l’ho vista in inglese perché doppiata in italiano non fa ridere. Mi innamoro di Larry David e vedo Curb Your Enthusiasm, la serie dove lui interpreta sé stesso. In America è pieno di serie del genere come Louie di Louis C.K., ma anche in Italia, molto prima, abbiamo avuto Casa Vianello, dove Sandra e Raimondo interpretavano loro stessi. Insomma, mi carico perché capisco che è proprio la comicità che piace a me e scrivo una serie di questo tipo. La propongo ma tutti mi dicono: «Ma perché fai una serie dove tu fai te stesso? È un documentario sulla tua vita». Cerco di spiegare che è una cosa che si fa nel mondo. Alla fine riesco a farla ma con pochissimi soldi, coinvolgendo amici, eccetera. Il critico televisivo del Corriere della sera, considerato il più importante critico televisivo, scrive: «Un egocentrico narcisista vanitoso di provincia» o una cosa del genere. Per cui penso: niente, è andata così. Dopodiché una serie di questo genere la fa Bisio e il critico del Corriere della sera scrive che la serie non è bella, ma ci vuole tanto coraggio a interpretare se stessi, per cui complimenti a Bisio. Il fatto è che esistono delle persone che appartengono a dei circolini e non è una critica a Bisio, parlo del critico. Dopodiché la fa Verdone e diventa un’idea fantastica, e io sono lì che dico: «Cazzo, ho preso gli schiaffi da tutte le parti, almeno uno che dicesse...» Ma insomma, me la devo mettere via; sono stato fortunato in tante altre cose.
È stato un caso o è un problema che ogni tanto ritrovi?
In Italia il percepito è importante. Io non ho casacche di nessun tipo. Non sono di destra, non sono di sinistra, non ero di questa o di quella scuola. Sono un battitore libero. Faccio quello che mi piace. Dopo 30 anni di carriera è arrivato il messaggio che faccio quello che mi sento. Non ho piccoli acquari dove voglio essere più grosso di un altro. Non scrivo libri pensando di essere il più grande scrittore del mondo. Scrivo storie che mi piacciono, penso però che sia anche uno dei motivi per cui arrivano alle persone: non voglio fare la gara a chi ce l’ha più grosso, non mi interessa.
Come hai preso l’odio dell’intellighenzia verso i tuoi libri?
A proposito di America, lì nessuno si sognerebbe di dire che i miei libri non sono libri. Non c’è questo totem di un gruppetto che deve garantire una cosa. Il libro può essere anche intrattenimento. Nessuno va da chi legge Harry Potter a dirgli: «Non stai leggendo un libro». Non esiste, questo concetto è proprio una cosa italiana. Succede perché l’acqua è poca e appena arriva un altro animale a bere bisogna subito attaccarlo. È un istinto animale, non è una cosa intellettuale. È arrivato uno che ci sta bevendo l’acqua e lo stagno è piccolo.
È vero che fomentavi tu stesso l’odio sui forum online?
Sì. Se tu riesci a prendere solo il bacino di chi ti segue hai un bacino ridotto, ma se tu riesci ad aprire una discussione e avere l’attenzione di chi ti odia hai fatto bingo. Se non avessi avuto questa attenzione avrei venduto molto meno invece sono diventato il nome sulla scatola, Fabio Volo funziona per le battute, per le per le prese per il culo, non sarei mai diventato così popolare senza quell’odio.
Quindi alla fine ha fatto il tuo interesse?
Paradossalmente. Come dico ai miei amici: l’odio l’ho messo in fattura e mi ci sono comprato casa.
Però non può essere solo questo: con oltre 16 milioni di copie sei l’autore italiano vivente più venduto. Hai capito qual è il segreto dei tuoi libri?
Intanto io cerco di togliermi il più possibile dalle storie che scrivo. Porto avanti la storia, non porto avanti io che racconto una storia. Non sono un intellettuale che da un gradino più alto illumina e indica la strada.
Però nei tuoi libri ci sono sempre molte riflessioni sul senso della vita e su altre questioni di carattere generale.
Sì, però è più una condivisione del mio punto di vista su delle cose. Non è detta da un professore, è detta dal tuo compagno di stanza. Lascio tanto spazio e descrivo poco i personaggi perché vorrei che il lettore ci vedesse dentro il suo amico, sé stesso, il marito, la moglie. Sai quella famosa frase di Dino Risi a Nanni Moretti? «Levati e facci vedere il film?» Ecco.
(La versione integrale dell’intervista è sul canale YouTube e Spotify di PDR – il podcast di Daniele Rielli)
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