Morirò figlia, senza mai essere stata madre, figlia e basta.

Come morire da piccoli, o ancora vergini, morire senza davvero diventare adulti.

Non lascerò orfano nessuno, non popolerò sogni notturni, sulla mia tomba neppure un fiore. I miei geni arresi, finita la corsa, la storia della mia famiglia si fermerà con me. Sono io, la mia minaccia di estinzione. Ho fatto un torto a mia madre e mio padre.

Qualche anno fa un’amica che non riusciva a rimanere incinta mi disse: mi sento in colpa verso mia madre. Che m’importa del calo demografico, chi mai ha fatto figli per lo stato, o perché non crollasse il welfare, o per produrre forza lavoro, o carne da cannone, ci saranno guerre nuove e nuove epidemie; dicono è peggio la crisi demografica di quella climatica – e allora tutti quei bambini col moccio al naso negli spot su YouTube che non si possono saltare, devi guardarli sino in fondo, poi il video parte. Perché desideri un figlio?

Non l’ho mai chiesto a nessuno. Non si chiede la ragione di un desiderio che per il mondo è naturale. Istinto materno, risponderebbero. Costruire una famiglia. Che cos’è una donna senza un figlio?

O anche: mi sento in colpa verso mia madre. Così ha detto la mia amica; camminavamo per strada, era estate, e io non la capivo. (Voglio conoscere quel tipo di amore, mi rispondevo a trent’anni.) Se sentono l’odore di un maschio straniero, un potenziale pericolo, le femmine di topo si provocano un aborto spontaneo riassorbendo nell’utero l’embrione. Non c’è bisogno di ferri, di leggi, colloqui psicologici. Una magia. Io ti ho fatto e io ti disfo.

Prima ancora che tu nasca.

Non ho mai abortito. Non sono mai rimasta incinta. Mai stata due. I miei organi non si sono ritratti per far spazio a qualcuno che sarebbe stato me fino alla sua nascita, che sarebbe stato vivo senza essere sulla Terra, vivo mentre io vivevo ed ero doppia ed ero mia ed ero sua e non potevo più morire: pena, ucciderlo. Non ho mai fatto un test di gravidanza. Una ragazza mi ha detto: l’ho saputo subito, mi sono svegliata diversa. Certe mattine io pure mi sono svegliata diversa, ed era un pensiero fisso un brutto sogno una mancanza, mai un bambino. Una volta sola ho avuto paura e ho pianto un giorno intero con il mio compagno pensando che avrei perso tutto, il mio lavoro precario e mal retribuito, ogni tentativo di emancipazione. Lui mi consolava, troveremo un modo, e avevamo venticinque anni. Certe mattine mi sveglio e penso è colpa mia, se non ha creduto che sarebbe stato un buon padre. Non gliel’ho detto, quel giorno, anche se ero sicura di sì. Volevo me stessa, prima di un figlio – avevo appena cominciato a liberarmi.

La notte ho visto il sangue sul cotone e gli ho stretto un polso mentre dormiva.

È una buona madre, la femmina di coccodrillo, che bocca grande che hai, ci entrano i cuccioli fino a dieci, che occhi grandi che hai, per lacrimare meglio – non piange per i suoi piccoli, non li ha mica divorati, ha fatto una sacca con la lingua e li ha trasportati lungo il fiume, malfidenti: in ogni femmina sospettate una latente Medea.

Il mese scorso quell’amica mi ha detto: ho sempre avuto voglia di morire, finché mia figlia non è nata.

E adesso che è nata, avrei dovuto chiederle, hai voglia di vivere o ne hai solo il dovere? È così che ci si incatena alla vita, privandosi della libertà di non esistere più?

Dopo aver svezzato i mici la gatta smette di occuparsene, di riconoscerli, con violenza li scaccia. Madre snaturata o madre natura. Istinto materno a termine.

Io dall’idea del suicidio sono messa in salvo, rimango in vita perché posso scegliere di non farlo, e questa possibilità mi dà sollievo. Una forma integrale di libertà. Sono io, la mia minaccia di estinzione, la mia promessa, la mia pietà.

Ho creduto però che quel sollievo lo togliesse, il diritto di aver figli.

Temevo che mi avrebbero scoperta. Che lo avrebbero scoperto.

Che potessero provarlo anche loro.

(L’istinto materno è ossitocina. Se la immetti nelle femmine di topo senza prole, diventano accudenti con la prole degli altri.)

Scava l’orsa polare, nella neve o nel ghiaccio, una tana per riparare i cuccioli dall’inverno, li allatta e li scalda, mentre la temperatura scende, sessanta gradi sotto zero, senza l’aiuto di un compagno, sola con tre gemelli, rannicchiati l’uno sull’altro, addossati a lei, nel silenzio artico, mesi e mesi in cui lei è cibo e culla e casa e confine, mesi in cui il suo corpo è il mondo intero conosciuto, l’unico odore mai inspirato. Poi arriva la primavera, e i figli sono pronti a uscire, e quando compiono due anni lei non li trattiene, non chiede nulla, non recrimina, li lascia andare.

Nessuno mai lo dice. Dibattiti su dibattiti e nessuno che centri il punto. Non è una questione di soldi, di carriera, di welfare, di famiglia nucleare, di solitudine, di decadimento della coppia, di femminismo, di disincanto, di maturazione, di terrore, o di libertà.

Il punto è che gli esseri umani sono mortali. Per questo non ho la forza di fare figli.

Serve troppo coraggio. La fiducia nel fatto che sarò preservata da quel dolore contro natura che la natura ha previsto. Perché dovrebbe accadere proprio a me? Perché è possibile. La mera possibilità annienta il desiderio. Non partecipo alla roulette russa sulla pelle di mio figlio. E che accada a qualcun altro anziché a me non attenua la crudeltà, me ne rende complice.

«Voglio fare un figlio che non muoia – un figlio che parli e continui a parlare, a cui non sparino e che non brucino sul rogo. Non si può bruciare ogni copia di un certo libro, i libri sono più potenti di qualunque omicida, di qualunque crimine», ha scritto Sheila Heti in Maternità.

(Come fanno a considerare la Creazione un atto d’amore?)

Diceva la terapeuta: qui dentro non viene la scrittrice, ma la persona.

Anni di terapia, e ancora pronunciava simili ingenuità. Le dicevo che generare la vita significava condannare alla morte, e lei replicava un conto è la logica, un conto la realtà. Ma la logica è reale, me la sento nella pancia, nella gola, mi spegne i desideri. Ha ancora tempo per fare un bambino, concludeva. Ero strana anche per lei. La logica, una nevrosi. Chi non fa figli non crede nella vita.

Ma che cosa c’è da credere? La morte di chi amiamo è un’ingiustizia senza perdono. Non posso colludere con il carnefice, dargli la chance di infliggermi più dolore di quanto riesca a sopportarne.

(Serve troppa fiducia. Troppa ossitocina.)

Le donne senza figli si domandano se sono egoiste, o rivendicano il diritto di esserlo. Ma l’egoismo non c’entra. Fare figli non è altruista. Nei confronti di chi lo sarebbe? Di qualcuno che non esiste, che non ha chiesto di nascere, che non ha espresso nemmeno un parere sull’argomento, che farà esperienza della malattia e della perdita, e a un certo punto, ancora piccolo, scoprirà di essere destinato alla fine?

(E allora non ti innamori, non fai amicizia, dimentichi persino il nome di tua madre, ti separi dagli esseri umani e vivi isolata per non legarti, per scampare al terrore di perderli? Ero già in vita, non ho potuto farne a meno. Ma la vita che non c’è, perché dovrei essere io a crearla? È responsabilità mia, che sia mortale. Non posso lavarmene le mani. Non sono Dio. E non voglio somigliargli.)

Fino a cinquecentomila uova attacca al soffitto della tana la femmina di polpo, e aspetta lì per mesi, senza neanche mangiare, allontana i predatori, muove i tentacoli per far circolare l’acqua intorno alle uova e ossigenarle, in modo tanto delicato che paiono carezze. Perde peso, e non si muove. Poi, quando i piccoli nascono, assottigliata da fame e stanchezza, spesso muore.

Ti sembra logico, o commovente?

(Se fossi Dio, se non mi riguardasse, sarebbe uno spettacolo entusiasmante. La vita, intendo.)

A Sarajevo sono entrata nell’orfanotrofio di Bjelave. Non cercavo un bambino, indagavo una storia. La pandemia era già in corso, ma non lo sapevamo. I bambini mi sono saliti in braccio, avevano il moccio al naso, la tosse, le gambe secche, come negli spot su YouTube che non si possono saltare.

Lei, l’ho incontrata al secondo piano. Quasi quattordici anni, i capelli lunghi, un sorriso senza difese. Non ricordo cosa mi abbia domandato, il suo inglese arrancava, sparuti vocaboli scollegati.

Mi ha seguita, piano dopo piano, camera dopo camera, mentre un’educatrice mi guidava e un’attivista traduceva. Finché non sono arrivata in camera sua. Una pila di libri sul comodino, me li ha mostrati, volevo sapere che cosa leggesse, tentava di spiegarmi, non capivo, ridevamo. Che occhi grandi che hai. Dimmi che non piangi. Ha chiesto una foto con me, abbiamo usato il mio cellulare, il suo. Era già l’ora di pranzo. I bambini si sono seduti a mangiare, aiutati dalle educatrici. Lei è andata in cucina a lavare le pentole. L’educatrice mi ha offerto il tè in una stanzetta e io pensavo a lei, mi distraevo, non ascoltavo, senza avvertire mi sono alzata e l’ho raggiunta. Non mangi? Non ho fame. Che bocca grande che hai. Che testardo sorriso.

Mentre andavo via, mentre la porta si chiudeva, dal vetro mi ha mostrato un cuscino. Sopra c’era scritto I love you. Rideva forte e non capivo perché.

Le ho spedito uno scatolone di regali per il compleanno. Dentro c’era anche un mio vestito di quando avevo trent’anni e sognavo l’amore di un figlio, e non lo mettevo al mondo. Lei l’ha indossato e mi ha inviato la foto su Instagram, le stava bene. Avevo prenotato un altro viaggio a Sarajevo e speravo di rivederla, ma è scattato il lockdown. E io non potevo più morire, neanche l’avessi promesso a lei. Il mondo ribadiva la sua minaccia di estinzione e lei mi mancava. Non ci siamo più abbracciate.

Ci scriviamo da tre anni sui social, poche frasi striminzite in privato, sempre più sporadiche, perché l’inglese non lo sa abbastanza e intanto è cresciuta. Ha lasciato l’orfanotrofio, ma non è tornata da sua madre, è un’adolescente che copia massime sotto i selfie, il suo tempo è accelerato rispetto al mio, cosa può farsene di me. Mi ha già abbandonata – un destino naturale – senza mai essere mia. Non recrimino, non chiedo nulla, vorrei solo trattenerla, ancora un po’. Sono inciampata in lei nell’istante esatto in cui è stata bambina per l’ultima volta. Ho fantasticato di ospitarla in vacanza, di imparare a conoscerla, di farmi conoscere da lei, di mostrarle Roma, di portarla al mare, di svegliarmi la mattina e trovare il suo sorriso a colazione. Di aiutarla a crescere. Di lasciarla andare.

(Ti sembra logico, o commovente?)

Lei è già al mondo, non devo crearla. La sua morte che verrà non sarà colpa mia.

Non saresti comunque al riparo dal possibile dolore contro natura che la natura ha previsto.

Ma sarebbe come amare un’amica, o un compagno, nel terrore di perderli. Non sarebbe l’impudenza di sfidare la sorte, una roulette russa sulla pelle di chi poteva esser risparmiato.

La tua è una nevrosi.

Non è da me che è stata strappata, non è al mio ventre che sogna di tornare. Non avrà le mie tare. Potrebbe scegliermi, è libera di rifiutarmi.

(Non partorire, ma alleviare la pena di chi c’è già. Eccolo, un atto d’amore.)

Ho scritto un romanzo che inizia all’orfanotrofio di Bjelave, nel 1992. Lei non era nata. Non sa nulla, della guerra. Ho scritto un romanzo su tre bambini danneggiati, che diventano grandi nonostante tutto. Non l’ho scritto perché i libri sono più potenti della morte, cara Sheila Heti: possono morire, però almeno non soffrono.

Non è un atto d’amore, la creazione letteraria. Ma non so fare di meglio. Perciò mi sento in colpa. Non verso lo stato, mia madre, mio padre, il mio compagno, o la mia stessa vita, alla quale non ho concesso l’ottusità della fiducia, l’ho angariata con la sevizia della logica. Non ho colpa verso quel che non è accaduto, che non esiste. Ma di quel che esiste ho responsabilità. Soprattutto se mi ha sorriso senza pudore.

Chissà da dove veniva quella sua euforia. Pochi esseri umani mi sono mancati come lei. Un desiderio, una proiezione, un’impennata di ossitocina. Morirò figlia, eppure una mattina d’inverno per un attimo ho immaginato di poter scegliere a chi fare da madre.

Questo racconto che anticipiamo sarà pubblicato in Sotto il vulcano, diretto da Marino Sinibaldi, nel numero 6 Conflitti a cura di Francesca Mannocchi, Feltrinelli, in libreria dal 28 febbraio. L’uscita di Conflitti, si inserisce nell’iniziativa All we are saying is give peace a chance di Gruppo Feltrinelli e Fondazione Feltrinelli, un programma di voci, racconti e iniziative per accendere la riflessione su un conflitto del quale non si vede la fine e sull’opportunità – e necessità – della pace. Diversi gli incontri con pubblico e autori su tutto il territorio nazionale. Tra questi la presentazione, il 22 febbraio, di Una madre. La vita e la passione per la verità di Anna Politkovskaja (Rizzoli), di Vera Politkovskaja, figlia della giornalista russa uccisa, e l’incontro con Guido Crainz e Giulia Lami, il 23, un’installazione artistica nella Feltrinelli di viale Pasubio a Milano, realizzata dagli artisti Simona e Lorenzo Perrone, e una proposta bibliografica con titoli di narrativa di guerra e reportage nelle Librerie Feltrinelli, su lafeltrinelli.it e su Maremosso. LaF-Feltrinelli Collection, sulla piattaforma MymoviesOne, propone tre documentari (Tim Hetherington: dalla linea del fronte, Pussy Riot e The Square – Dentro la Rivoluzione) e infine Feltrinelli Education il corso live Fare la storia: il passato in classe per aiutare gli insegnanti a raccontare la complessità della guerra.

© Riproduzione riservata

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