Il film di Michael Mann è fiacco: un ossimoro, parlando dei motori della casa del cavallino È l’Italia eternamente vista con le tinte del melodramma
Se Cristo nascesse oggi vivrebbe a Modena e farebbe il meccanico, non il falegname: corre l’anno 1957 e dal pulpito il prete palpita per la casa di Maranello, orgoglio della città. Persino un Cristo meccanico forse sbadiglierebbe guardando Ferrari, il film di Michael Mann in concorso a Venezia che corona il sogno trentennale di un glorioso ottuagenario ancora sulla breccia.
A Michael Mann dobbiamo gratitudine eterna per aver corredato di muscoli il Daniel Day-Lewis de L’ultimo dei mohicani, trasformandolo nel più strepitoso oggetto del desiderio di sempre. La canizie che regala ad Adam Driver (Enzo Ferrari) e a Patrick Dempsey (il pilota Piero Taruffi) in questo biopic basato sulla biografia del telecronista americano Brock Yates, Enzo Ferrari: The man and the machine, non ha esattamente lo stesso impatto.
È una sceneggiatura macerata per anni insieme a Troy Kennedy-Martin e sopravvissuta allo sceneggiatore scomparso nel 2009. Ma è destino che i vecchi leoni dell’imprenditoria italiana siano il cimitero degli elefanti dei vecchi leoni del cinema.
È il bis di House of Gucci di Ridley Scott, sempre con Adam Driver, che è bravo e potrebbe impiegare meglio il suo tempo. Ferrari è fiacco: un ossimoro, parlando dei motori della casa del cavallino. È l’Italia eternamente vista con le tinte del melodramma, e La Traviata puntualmente compare in una sequenza.
Il 1957 è l’annus terribilis della scuderia, ma anche la vita privata di Enzo Ferrari non scherza. Il suo team incassa sconfitte, la Casa è sull’orlo del precipizio, con sua moglie Laura (Penélope Cruz) è ai ferri corti e suo figlio Dino è stato tragicamente stroncato l’anno prima dalla distrofia di Duchenne.
Gli resta il legame storico con Lina Lardi (Shailene Woodley), ma al figlio avuto da lei, Piero, non può dare il suo nome senza ferire la moglie. Vende auto ai regnanti del pianeta, ma perde le corse, mentre la Jaguar è sulla cresta dell’onda. «La Jaguar corre solo per vendere auto, io vendo auto solo per fare le corse», risponde a chi gli consiglia di concentrarsi sulla produzione, magari cercandosi una partnership danarosa.
Per il riscatto, Ferrari decide di puntare sulla Mille Miglia e di sbriciolare in quella gara la concorrente Maserati, che ha i suoi stessi guai finanziari, ma al volante ha Fangio e Behra. La tensione del film dovrebbe, nelle intenzioni, crescere fino allo spasimo con l’arrivo in città di Behra e con lo sciagurato incidente in cui incorre Eugenio Castellotti durante le prove in pista. C’è un giovane pilota spagnolo di nobili natali, Alfonso De Portago, che tampina il Commendatore da giorni.
È il provvidenziale ricambio sotto mano: «E’ grande come Varzi», gongola quando lo mette alla prova. Per i fans del rosso Ferrari che non vantano memorie a prova di bomba sull’epica della factory modenese l’intreccio sembra in effetti degno di un libretto di Verdi, tra le pistolettate furiose di Penélope Cruz e i coiti sul tavolo genere Il postino suona sempre due volte, ma senza farina.
Ingannato da indiscrezioni seminate ad arte su trattative con la Ford, l’Avvocato abbocca all’amo e avanza le prime proposte Fiat. E al seguito di De Portago a Modena è arrivato un profumo di glamour buono per le prime pagine, perchè Linda Christian ( ex moglie di Tyrone Power e mamma di Romina ) è la fidanzata in carica del pilota.
Le cateratte di melodramma privato riducono i bolidi in corsa a un ritaglio, e immagino lo scorno di chi sogna da questo film un amarcord di Formula Uno d’antan. La corsa la vincerà il veterano Piero Taruffi, per la gioia di Patrick Dempsey, in proprio non solo appassionato di auto ma titolare di una scuderia in tandem con Alessandro Del Piero.
Ma la strage di Guidizzolo, durante la Mille Miglia, è rimasta negli annali. Sul rettilineo della Goitese, la Ferrari 335S con De Portago alla guida trova un frammento tagliente sul battistrada e decolla, letteralmente, uccidendo il pilota, il suo copilota Edmund Nelson e nove spettatori, tra cui cinque bambini.
È una tragedia immane che Mann guarda solo dal punto di vista dell’azienda, accusata di usare pneumatici di risulta. E il film mica finisce qui: ti sfianca con una coda di accordo finanziario tra Diver e Cruz, perchè lei finalmente gli cede il controllo sulla sua quota in cambio dell’impegno a non dare all’erede illegittimo il nome Ferrari. Piero Ferrari è oggi presidente della Ferrari Spa, precisa un diligente cartello. All’happy ending ha provveduto la storia. Ma non tira applausi.
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