La filosofa italiana fondatrice del dipartimento di Women’s Studies di Utrecht racconta sé stessa, fra schiettezza, reticenze e paraventi accademici
- La raccolta di saggi autobiografici e interviste della autorevole filosofa femminista Rosi Braidotti alterna momenti di sincerità a contorsioni accademiche
- Braidotti vuole donare il suo diario segreto a un archivio ad accesso riservato: se invece ne ricavasse una autobiografia ne verrebbe fuori un libro appassionante,
- In Fuori sede ci sono pagine vivaci, ma la filosofica abitudine a definire le cose soffoca il racconto, l’asserzione sistematica mortifica il desiderio di capire il mondo descrivendolo.
Che ci stai a fare qui? Perché ti ostini a leggere? Molla tutto subito e corri a fare l’amore anche tu. È questo lo stato d’animo che mi hanno procurato certe pagine infervorate di Fuori sede. Vita allegra di una femminista nomade di Rosi Braidotti. In particolare, quelle dove descrive le sensazioni che le davano gli accoppiamenti con i due amori più significativi della sua vita. Prima un uomo e poi una donna: Geoff e Anneke. I resoconti erotici che li riguardano si trovano a distanza di poche pagine uno dall’altro; ciò che colpisce è che si tratta dello stesso testo, copincollato con delle piccole variazioni. Il significato di questa specularità è chiarissimo: con entrambi questi amanti, Braidotti ha raggiunto la stessa intensità sensuale, non importa se fossero uomo o donna.
Sono due pagine che andrebbero ricopiate per intero. Mi accontento di confrontare due frasi. A letto con Geoff: «riusciva a prendermi fin dentro il midollo spinale, per poi risalire come un rettile preistorico sempre più su, fino alla base del cervello». A letto con Anneke: «riusciva a farmi vibrare fin dentro il midollo spinale, per poi rimbalzare come un delfino folle di gioia nei meandri più occulti del mio cervello».
Sincerità accademica
Da quel che ho detto finora si potrebbe pensare che questa raccolta di saggi e interviste autobiografiche sia una festa della sincerità, impostata sulla più coraggiosa schiettezza. Purtroppo non è così. È questo il rammarico più grande con cui si esce da questo libro: la quantità di reticenze che contiene, nonostante l’autrice racconti molte cose di sé; sicuramente più di quanto facciano di solito i suoi colleghi filosofi, il che le va riconosciuto con gratitudine.
Quando vuole, Braidotti scrive in maniera vivida. Lo dimostra la pagina più riuscita del libro, dove ricorda il ricongiungimento della sua famiglia. La madre viveva in Friuli, uno zio in Germania, a Essen, l’altro in Cecoslovacchia a Zamberk: li avevano separati da piccoli; dopo tanti anni, nel 1959 si ritrovano al bar Battiston di Latisana. Le lingue che risuonano quel giorno nel bar sono il tedesco, il ceco, l’italiano, il friulano; si riesce a capirsi usando il latino ecclesiastico dello zio prete. Raccontando quella circostanza memorabile, Braidotti gode della babelicità multiculturale, poliglotta, multidentitaria della sua famiglia, che conferma le sue teorie sull’identità composita: in questo caso mette insieme esperienza e teoria, fatti vissuti e pensiero. Quella scena narrata in maniera incisiva, icastica, è quasi un’oasi di luce in un libro che troppo spesso si appesantisce di accademismi ostici e sintassi spigolose.
Questa raccolta di testi autobiografici manca di scenicità, di capienza rappresentativa; Braidotti si nasconde nell’astrazione generica. Forse la verità della sua esperienza e delle riflessioni che ne ha ricavato è racchiusa nelle centinaia di quaderni che ci informa di aver riempito, dato che da sempre tiene un diario, «il mio bene più prezioso»; vuole donarlo a una fondazione: ma sarà ad «accesso riservato».
Sarebbe bello farne anche un altro uso: ricavarne un’autobiografia, vivace come le pagine che ho indicato, in cui l’autrice si lasci andare a una scrittura raffigurativa, non cervellotica, senza pagare pedaggi allo stile intellettualistico universitario. Se Braidotti se ne liberasse, avremmo una scrittrice con una marcia in più: oltre al talento rappresentativo potrebbe contare sulla capacità analitica, sull’attitudine filosofica di ricavare pensieri dai fatti.
Ne verrebbe fuori un libro interessantissimo: la storia di una figlia di emigranti, che per sopravvivere si trasferiscono dal Friuli all’Australia, a Melbourne, all’inizio degli anni Settanta; l’adolescente Rosi scopre che si può stare al mondo diversamente, che anche una donna può indossare i pantaloni, si appassiona alla filosofia scambiando lettere con lo zio prete rimasto in Italia, si laurea, si fa strada nell’ambiente universitario, vince premi e medaglie come giovane studiosa, si perfeziona a Parigi, vive «stagioni di sperimentazioni sensuali e passioni amorose molteplici», abortisce, insegna in Olanda, e a Utrecht fonda e dirige il primo dipartimento di studi sulle donne, fino a diventare una delle più importanti voci della filosofia contemporanea.
Una lingua postumana
«La mia aspirazione», dice Braidotti, «è semplice e profonda: vorrei che i miei scritti riuscissero a riconnettere il lettore alle radici intime del suo desiderio di libertà e resistenza».
Mi chiedo come possa pensare di riuscirci scrivendo frasi come queste: «Il soggetto nomade è fatto di avvicendamenti e negoziazioni incessanti tra diversi livelli di potere e di desiderio, ovverosia tra intrappolamento e potenziamento. Qualsiasi parvenza di unità vi si dovrebbe rintracciare non è altro che la drammatizzazione di un’entità relazionale stratificata all’interno di un’ontologia materialista». Accademicume intorcinato. Riprendendo un concetto centrale nella sua filosofia, mi viene da dire che Braidotti si esprime in una lingua postumana.
Eppure è convinta di propugnare «premesse tanto sovversive». Forse sono sovversive rispetto a quelle di certi suoi colleghi che si accontentano delle rendite di posizione culturale procurate da una cattedra e un ruolo istituzionale. Non mi pare che siano sovversive in assoluto. Voglio dire che la sovversione di Braidotti è relativa al suo ambiente di riferimento, ma si ridimensiona se la si mette alla prova nel mondo aperto.
Un esempio. A un certo punto dice: «Rimango sempre molto colpita dalla scarsa considerazione di cui gode la gioia perfetta, anche se paradossalmente è questo l’argomento che tutti i tabloid e le riviste femminili commercializzano come prodotto di punta!» Perciò accetta di contribuire a una raccolta di «storie d’amore a lieto fine», per «uscire allo scoperto su uno dei temi più sottovalutati della cultura femminista: la felicità». Evidentemente, Braidotti è convinta di aver fatto un gesto controcorrente perché vede sé stessa da un punto di vista istituzionale, per il ruolo che ricopre: una filosofa che scrive un racconto d’amore! Mentre è ovvio che si tratta di uno dei gesti più comuni nella cultura di massa, e non solo. Braidotti sembra ignorare l’esistenza della letteratura.
Se la cultura accademica femminista sottovaluta la felicità, ciò non succede di certo nei romanzi, che la raccontano, la indagano, la analizzano da secoli, ne mettono in luce le illusioni e le frustrazioni, e si confrontano con un pubblico indifferenziato per età, classi sociali e aspettative. Ma se ci si rincantuccia in luoghi del sapere separati e si seleziona in partenza il proprio pubblico di riferimento, ecco che ogni piccola mossa che travalica quei recinti, come scrivere una storia d’amore, apparirà audace anche se coincide con una delle pratiche più diffuse al mondo.
Parresiasta a metà
Braidotti mi sembra più coraggiosa quando ammette certe sue contraddizioni teoriche e politiche. Confessa di essersi battuta politicamente per le donne biologicamente intese come tali, pur pensando che «donna» sia un costrutto finto, frutto dell’egemonia patriarcale; ha accettato quella definizione essenzialista per motivi puramente strategici, in una fase storica in cui la prima cosa da ottenere è l’emancipazione: e quindi, per raggiungere questo scopo, di fatto ha acconsentito ad accreditare una falsa costruzione patriarcale. Non mi sfugge quanto dev’essere penosa, in particolare per una filosofa, la consapevolezza di combattere all’interno di una non-verità; e tanto più apprezzo la sua onestà intellettuale nell’ammetterlo.
Altrettanto onesta è quando parla dell’attrazione erotica fra insegnanti e studentesse lesbiche nei dipartimenti di Women’s Studies; giustamente chiama in causa Platone, sottolineando «quanto la cultura patriarcale sia esplicita sull’eros tra uomini vecchi e giovani». Allo stesso modo, ammette che «la circolazione del desiderio nelle aule universitarie influisce sia sulle insegnanti sia sulle studentesse», e che «c’è un’enorme quantità di amore e desiderio gay e lesbico che alimenta la produzione di conoscenza femminista e Lgbtq+. Varrebbe davvero la pena di rimuovere quel tabù, quel silenzio, e avere la libertà di mappare queste sessualità». Ma si limita ad augurarselo, senza dire di più, senza raccontare nient’altro. Ancora una volta, una separazione tra esperienza e pensiero, tra vita e teoria, tra esistenza e filosofia.
D’altronde, il bello di questo libro è che è contraddittorio: da una parte sconfessa l’importanza del sesso come «chiave dell’identità», dall’altra intona inni esultanti alla felicità sessuale; da una parte sostiene l’identità fluida, dall’altra si abbarbica alla propria storia biografica; da una parte auspica fenomenologie concrete, dall’altra si esprime con astrazioni cervellotiche; da una parte ha voglia di raccontarsi, dall’altra fa appelli moralistici al calmieramento dell’io. Rosi Braidotti è una parresiasta a metà: il suo «coraggio della verità» è frenato da una ideologia anti-egologica condivisa con molti suoi collegi, presentata come una necessaria riduzione del soggetto e del suo narcisismo, che però, poi, di fatto, si traduce in una reticenza sulla vita.
La morale senza favola
Se Braidotti avesse raccontato le sue esperienze con la stessa verve dettagliata che ha dedicato alla riunione della sua famiglia del 1959, avremmo un libro memorabile; ci resta invece un moncone incoraggiante, ma ancora troppo timido (pazienza, si può rimediare).
L’autrice non sosta nel momento dell’esperienza, corre frettolosamente alle considerazioni teoriche. Le pagine di Braidotti sono come favole di Esopo in cui la parte narrativa venga appena accennata, e la morale della favola occupi i nove decimi dello spazio testuale.
Per esempio, di un amore decisivo per una ragazza a Parigi ci viene detto soltanto che «così, di colpo, senza preavviso, mi viene in mente lei». Ma com’è questa lei? Che aspetto, che carattere ha? Come si comporta? Non ne sappiamo niente. Non ci viene detto qual è stato il ruolo della ragazza che le ha fatto scoprire una dimensione completamente nuova della vita.
Nonostante Braidotti metta subito le mani avanti dicendo che «non mi piace molto parlare di me», finisce per essere egocentrata, si accontenta di descrivere sé stessa, i moti del suo desiderio. Qui spicca molto bene l’equivoco sul parlare di sé: è chiaro che se lo si fa in questo modo, è autoreferenziale e narcisistico; ma l’autobiografia è un’occasione per parlare anche degli altri, per comprenderli con la scrittura.
«Non so più come o perché, ma un giorno – lo ricordo benissimo – una giornata grigia di madreperla, con Parigi che sembrava stesa con pigra eleganza sulle rive del suo fiume, mentre davanti a una boutique della rue de Seine occhieggiavo una magnifica spilla di lapislazzuli, di colpo ho saputo con una certezza lancinante che ero innamorata di lei». Quel che ho appena trascritto è tutto ciò che ci viene raccontato di quella svolta cruciale nella sua vita: un evento tutto interiore, autarchico, al quale l’altra persona sembra non contribuire. La scrittura di Braidotti è inospitale. Non accoglie gli altri.
D’altronde, la forma mentis filosofica preferisce definire piuttosto che descrivere. L’asserzione sistematica mortifica il desiderio di capire il mondo raccontandolo. Il cupio adserendi soffoca il cupio narrandi. Ma si fa torto alla vita e alla conoscenza se non si entra nello specifico. Gli altri diventano un piatto fondale indifferenziato. Così Braidotti quasi sempre si accontenta di descrizioni generiche, che non colgono la particolarità di una relazione, di un evento, di un’esperienza e delle cose che le hanno fatto scoprire. In questo modo i risultati sono ovvietà. Ecco come presenta il desiderio di fusione che ha provato con uno dei suoi amori: «Veniva in superficie una specie di curiosità nei suoi confronti, un “voler sapere” dell’altra che si spingeva fino all’intimità totale. Voler sapere com’era nel bene e nel male, nel piacere e nel pianto, spalancava le porte a una conoscenza di lei che andava al di là del parlato e del detto e diventava sapienza cutanea, comprensione istantanea, accesso totale e senza mediazione». Ma va’?
Fuori sede. Vita allegra di una femminista nomade, (Castelvecchi 2021, 141 pagine, euro 16.50) è un libro di Rosi Braidotti.
Questo articolo è il secondo di una serie sui libri autobiografici dei filosofi contemporanei. Qui puoi trovare il primo, su Tiresia contro Edipo di Perniola
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