- Avevo 23 anni quando iniziai a lavorare alla bibbia degli hipster: amavo moltissimo quella rivista, ma non ero assolutamente adatta a quel posto
- L’ambito su cui i miei superiori riuscivano a dare il meglio era quello musicale. Facevano i nomi di band nate il giorno prima con quattro ascoltatori o di generi musicali di singoli quartieri di città del Centro America
- Questo articolo è parte di FINZIONI – Il mensile culturale di Domani, che si può leggere e scaricare a questo link
Quando iniziai a lavorare nelle redazioni avevo 23 anni ed ero nel posto in cui sognavo di stare. Amavo quella rivista così tanto che quando mi presero pensai subito che fossero scemi.
Non ero assolutamente adatta a quel posto, nonostante avessi superato tutti i colloqui, dimostrato di conoscere molto bene la rivista e provato di saper fare il lavoro richiesto, cioè tradurre articoli dall’inglese all’italiano e avere qualche idea per articoli che avrebbe scritto qualcun altro. «Potrebbe scriverlo XY» era la risposta standard alle riunioni di redazione, e quegli XY ora sono dei nomi importanti del panorama letterario italiano, e sono onorata di averli visti lavorare quando cominciavano a muovere i primi passi e di aver contribuito in qualche modo alla loro produzione, però anche vaffanculo.
Non farò il nome della rivista in questione perché nel frattempo è cambiata tantissimo, io la chiamo ancora “rivista” e saranno almeno cinque anni che non esiste in formato cartaceo. Ammetto con un po’ di imbarazzo verso i miei ex colleghi che per me ora potrebbero anche non avere un sito perché vedo solo i post su Instagram a cui metto like senza finire di leggerli. Scusatemi, mi sono abbonata a quattro giornali online nell’ultimo anno, leggere roba gratis mi fa venire i sensi di colpa.
Microscopicismo culturale
Per capire la testata a cui faccio riferimento, diciamo che è un contenitore di notizie e opinioni su temi di attualità per giovani dai 18 ai 30 anni interessati a diritti civili, ambiente e salute mentale. Molte cose sono cambiate rispetto al 2010, quando sono entrata in redazione e la testata veniva chiamata “la bibbia degli hipster”, che non erano i tizi con le barbe lunghe e le bretelle dell’iconografia di certi barber shop, ma una categoria ben peggiore: un ristretto gruppo di persone la cui unica passione era conoscere cose che gli altri non conoscevano, e farlo notare costantemente.
Questo microscopicismo culturale si applicava a qualsiasi ambito, dai libri ai film ma anche a cose più frivole, tipo la fotografia, non come forma d’arte, ma come le foto sceme da mandare come allegato buffo alle mail: la mia responsabile mandava solo ritratti posati di gatti scattati in studi professionali entro il 1989 oppure gatti indemoniati in foto di famiglia scattate da macchine analogiche automatiche negli anni Novanta in cui l’unico soggetto umano potevano essere anziane signore con pettinature cotonate.
Fortunatamente i gatti non erano gli unici soggetti ammessi, si poteva anche scegliere tra anfibi in via d’estinzione e invertebrati carini (che, come ogni persona per bene sa, non esistono). La pressione di rispondere a queste mail con una foto all’altezza era tale che spesso per inviare un semplice «va benissimo» ci mettevo due ore, per poi non allegare nulla, così oltre che lenta sembravo pure antipatica.
Esperti di sconosciuti
L’ambito su cui i miei superiori riuscivano a dare il meglio era quello musicale. «Ma come non hai mai sentito…» e via di nomi di band nate il giorno prima con quattro ascoltatori, generi musicali di singoli quartieri di città del Centro America, album usciti negli anni Ottanta di artista suicida le cui opere sono state trovate solo dopo la morte perché in realtà di lavoro faceva il bidello in una scuola cattolica di Huntsville, Alabama, e invece in casa era pieno di audiocassette con i suoi brani e foto di bambini seminudi, ma questo secondo dettaglio lo tralasciamo.
Io arrivavo da anni in cui non mi sentivo capita perché mi piaceva l’indie rock inglese e alle mie amiche no, ma arrivata in quella redazione scoprii che l’indie rock era roba da ragazzette che «mettono le magliette degli Smiths e poi non sanno neanche nominarti tre album». Tra l’altro, quando un paio di anni fa vidi questa frase comparire in un meme americano, non potevo credere di averla sentita dire nella realtà da un collaboratore del magazine.
La pronunciò serissimo, non che ci fosse altro modo per lui di pronunciare qualcosa visto che probabilmente aveva barattato la simpatia per l’intera discografia dei Laibach (non so chi siano, è il primo nome di band che ho trovato sul profilo Twitter del collaboratore in questione, leggo da Wikipedia che sono un gruppo industrial sloveno che ha fatto la colonna sonora di Iron Sky, un film sui nazisti che colonizzano la Luna per poi tornare sulla terra, che ho visto ed è brutto quanto il suo sottotitolo italiano, “Saranno nazi vostri”).
Ero riuscita a mascherare enormi lacune in letteratura americana di scrittori under 25, cinematografia nigeriana e soap siriane, ma con la musica era complicato, era un tema che invadeva le pagine del giornale, le serate da organizzare con i brand e i djset per i lanci del numero.
Fortunatamente di questi due ambiti si occupava il reparto marketing e il direttore, che in sei mesi di stage non mi rivolse mai la parola. Gliela rivolsi io quando cercando di spiegare come funzionava la colonna sonora di un certo film non gli veniva un termine. «La musica smette quando la protagonista toglie le cuffie, è musica… è…» disse, «Diegetica?» suggerii. Mi guardò con enorme stupore, ma non so se era perché sapevo il significato di “diegetica” o perché non sapeva ci fosse una stagista da quattro mesi.
Recensioni
Il problema della mia limitata cultura musicale divenne difficile da nascondere quando la persona che si occupava delle recensioni musicali mi chiese se avevo voglia di scriverne qualcuna. «Ma io non sono abbastanza esperta, non so niente», «Tanto non sono roba seria, sono anche anonime, che ti frega?», mi disse. Mi fregava che a leggerle era lei con la sua spaventosa cultura musicale: se un albero cadeva nella foresta e nessuno era lì a sentirlo, lei comunque aveva la sua intera discografia.
La proposta mi turbò tanto che ne accennai alla mia responsabile. «Fallo, potrebbe essere divertente! Lo aveva chiesto anche a me, ma purtroppo non posso farlo perché ascolto solo musica etnica» Vorrei dirvi che non era vero, che in realtà si sparava nelle cuffie solo Alessandra Amoroso e sigle di Cristina d’Avena, ma davvero ascoltava per lo più musica etnica. È per fare colpo su di lei che nel mio iTunes ho ancora un mp3 da 46 minuti di musica haitiana e che ho ascoltato ore di radio peruviane specializzate in musica huayno.
C’era ovviamente qualcosa che non quadrava. Stiamo parlando di un’epoca precedente alla discussione mainstream sull’appropriazione culturale e sullo sguardo “colonizzatore” o in generale sul politicamente corretto (ed era il 2010, mica il 1978), però persino io capivo che c’era un problema quando tra la musica etnica c’era pure il neomelodico napoletano. A parte che sono stata troppo a contatto con la Lega nord degli anni Novanta per non sentirci puzza di senso di superiorità, ma soprattutto, alla quinta volta di fila che sentivo la mia responsabile mormorare «Tu sentirai squillare il tuo telefonino, pché pà primma vot nun o’ fai rummì» da Ma si vene stasera di Alessio, non sei più un’etnomusicologa, sei una guagliona agli autoscontri.
Ma per i primi tempi dovetti adattarmi allo spirito della redazione, in particolare quando mi feci scappare che ascoltavo certa musica dance e la risposta del caporedattore fu: «Certo, è giusto farlo per conoscere i gusti popolari, no?». Beh, no. L’ascoltavo perché mi piaceva, la ballavo pure, però avevo anche l’enorme privilegio di non essere nata con un palo nel culo.
Nel giro di un paio d’anni quasi tutti i miei superiori se ne andarono e diventai io il superiore di altre persone, sempre e comunque più esperte di me in fatto di musica, ma che potevano dire cose come «mi piace il Meneito» senza per forza accompagnarci una tesina sul ballo di gruppo come strumento di socialità nella costa emiliano-romagnola. Quando lasciai questa redazione per andare in un’altra, la mia ex “rivista” pubblicò un documentario sulla storia di Blue (Da Ba Dee) degli Eiffel 65, e per quanto soffrii nel non aver partecipato alle riprese, sentii di aver fatto la mia parte in un movimento di liberazione, di aver camminato così che gli hipster potessero ballare la dance.
© Riproduzione riservata