Un giorno, durante la festa del paese, il sindaco saliva sul palco e diceva chiamateci pure froci, checche, cupiu, culattoni, busoni, iarrusi, caghineri, buggeroni, per noi non ha più alcuna importanza. Ma quelli di Renfrancore, ormai, avevano preso a chiamarli per nome
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Fino a un po’ di tempo fa all’ingresso di Refrancore (provincia di At) c’era un cartello che diceva «Benvenuti a Refrancore, paese dei finocchini».
Era stato inaugurato tre anni prima, in occasione della sagra del finocchino, biscotto tipico di Refrancore famoso in tutto il mondo (o almeno così sostenevano a Refrancore).
Per tre anni, più o meno ogni notte, uno o più ignoti si sono presi la briga di cancellare l’ultima sillaba della parola “finocchini” sul cartello, cosicché la sera si entrava nel paese dei finocchini e la mattina si usciva dal paese dei finocchi.
La prima volta, forse non a torto, si pensava a una ragazzata e si ripristinava la scritta sul cartello nel pomeriggio.
Alla dodicesima volta in quindici giorni si pensava a un atto di guerra da parte dei cittadini del comune limitrofo di Cerro Tanaro, si preparava una spedizione che finiva a botte, nonostante i cittadini di Cerro Tanaro fossero del tutto estranei alle manomissioni.
Una telecamera
Un mese e ventiquattro manomissioni dopo, l’Amministrazione comunale installava una telecamera nell’area del cartello.
La prima notte videosorvegliata era una notte calda d’estate.
La registrazione del giorno dopo mostrava un campo di girasoli, una vigna, il cartello di benvenuto e un uomo vestito di nero, con una maschera da Topo Gigio, che cancellava con vernice bianca l’ultima sillaba della parola “finocchini” e successivamente mostrava il dito medio all’obiettivo.
Intervenivano i carabinieri, i quali organizzavano ronde e appostamenti, ma l’ignoto manipolatore riusciva a farla franca ogni volta.
Tre mesi dopo si ingaggiava una guardia giurata per piantonare il cartello.
Una notte la telecamera riprendeva la guardia giurata svenuta e una donna con la maschera di topo Gigio mentre cancellava l’ultima sillaba dalla parola “finocchini”, un’altra notte la guardia era imbavagliata, il cartello manomesso, un’altra ancora la guardia si lanciava all’inseguimento di un sospetto, e mentre lo inseguiva un complice del sospetto manometteva la scritta.
Si stracciava il contratto con la compagnia che forniva le guardie giurate.
A maggio nella bordura accanto al cartello crescevano papaveri e fiori selvatici, la telecamera riprendeva un ignoto con una maschera da Zorro che raccoglieva i papaveri e cancellava l’ultima sillaba della parola “finocchini”; prima di andarsene estraeva una bomboletta spray da uno zainetto e disegnava una Z sull’obiettivo della telecamera.
Il nove luglio di tre anni dopo, per sfinimento, si inaugurava il cartello che diceva “Benvenuti a Refrancore, paese dei finocchi”, tuttora ben visibile all’ingresso del paese.
Le manomissioni cessavano.
Il cartello finiva sulle prime pagine dei giornali, al TG della sera, su Instagram e Facebook.
Con l’arrivo dei primi curiosi, i cittadini di Refrancore si vergognavano moltissimo e decidevano di non uscire più di casa se non per andare a lavorare. Appendevano alle finestre lenzuola con la scritta «Qui abita un eterosessuale», e si rinchiudevano nelle loro case.
Nel giro di sei mesi, innumerevoli omosessuali giungevano a Refrancore dall’Iran, dall’Arabia Saudita, dall’Afghanistan, dal Camerun, dal Bangladesh, dal Pakistan, dalle Filippine, dall’Italia meridionale, da Santiago (non so più se del Cile o di Cuba) e da molte altre località innominabili; tra loro c’erano medici omosessuali, insegnanti di matematica omosessuali, poeti omosessuali, muratori omosessuali, informatici omosessuali, artisti omosessuali, eccetera.
I cittadini di Refrancore li scrutavano dalle inferriate poste alle finestre, dalle persiane sigillate o dagli spioncini delle porte blindate; quando s’accorgevano che gli omosessuali non fornicavano in mezzo alla piazza del paese o per le strade, non vestivano come quelli del Gay Pride ma esattamente come loro, qualcuno con pantaloni e magliette, altri con camicie e giacche, non infastidivano i bambini, non tentavano di molestare animali o persone, dapprima si stupivano, successivamente si tranquillizzavano, infine tentavano timidi approcci con i forestieri omosessuali giunti da ogni parte del mondo.
Nuove case
Si costruivano nuove case e villette.
Si inauguravano cinema e negozi, parchi e locali, botteghe e musei, centri sportivi e gallerie d’arte, un ospedale, una piccola fabbrica e perfino una moschea, giacché si scopriva, con stupore e un po’ di terrore, che alcuni tra gli omosessuali credevano addirittura in Dio.
Un poeta omosessuale iracheno cantava i papaveri cresciuti nella bordura delle strade di Refrancore, le orchidee selvatiche cresciute nelle vigne di Refrancore, le case basse di Refrancore.
Gli informatici omosessuali si mettevano in società con un imprenditore omosessuale e con un ingegnere omosessuale e fondavano una compagnia che dava lavoro a centinaia di eterosessuali.
L’unico omosessuale di Refrancore, prima timido e vergognoso della propria natura, sposava un saudita a cui in patria era stato mozzato il dito anulare della mano sinistra e veniva eletto sindaco. Il giorno dello sposalizio infilavano le fedi nel dito medio e le mostravano orgogliosi alle telecamere della Vita in diretta.
Alcuni eterosessuali chiedevano di sostituire la parola “finocchi” del cartello con un termine meno denigratorio e più politically correct, ma tutti gli omosessuali, autoironici e ben consci del fatto che l’ospitalità, l’accoglienza o anche la semplice accettazione vadano oltre qualsivoglia insulsa terminologia, si opponevano.
Un giorno, durante la festa del paese, il sindaco saliva sul palco e diceva chiamateci pure froci, checche, cupiu, culattoni, busoni, iarrusi, caghineri, buggeroni, per noi non ha più alcuna importanza. Ma quelli di Renfrancore, ormai, avevano preso a chiamarli per nome, li chiamavano Giorgio, Philemón, Luisa, Mohammed, ecc. e non avevano bisogno di chiamarli in altro modo.
Refrancore diventava famosa nel mondo per i suoi finocchini e per i suoi finocchi, meta turistica e ricca sfondata.
In seguito ho sentito di altri cartelli di benvenuto manomessi, e perfino anagrammati, in giro per il mondo, cartelli che grazie a piccole manipolazioni promettevano un po’ d’accoglienza e accettazione a profughi e extracomunitari, a disabili e zingari, a socialisti e democristiani, a tossici e alcolisti, ma nessuno sortiva l’effetto sperato, e dopo poco venivano sradicati, l’accoglienza dimenticata, le minoranze oppresse, i deboli sottomessi, i bisognosi abbandonati, come al solito, come dappertutto.
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