Girare intorno al tema del matricidio è una costante nell’opera di Gadda. Girarci intorno ma senza mai raccontarlo direttamente; quello è il grande interdetto, ciò di cui Gadda non può permettersi di parlare. Proprio l’interdetto del matricidio forse è la causa della incompiutezza di tutti i romanzi gaddiani
Il falso indizio è tipico dei racconti polizieschi: depistare il lettore, indurlo ad anticipare conclusioni che poi risulteranno sbagliate, aumenta la sua soddisfazione nello svelamento finale e gli regala il brivido di riconoscere, dopo lo scivolone della propria intelligenza, quanto l’illusione della realtà possa essere sorprendente.
La cognizione del garbuglio è stato l’obiettivo del Gadda romanziere: per questo ha sempre tentato di scrivere dei polizieschi (a Garzanti aveva addirittura proposto un libro con sei racconti gialli) e per questo non ha mai finito un romanzo. Finire una storia, per lui, avrebbe significato scoprire il colpevole: e il colpevole, Edipo insegna, è sempre il detective.
Partiamo dal 1928, da quando cioè Gadda dà le dimissioni dall’Ammonia Casale, l’azienda in cui lavorava a Roma come ingegnere, e torna a Milano deciso ad accreditarsi nel campo della letteratura. Si faceva un gran parlare, sui giornali, di un certo Renzo Pettine: un giovane di bell’aspetto che aveva ucciso la propria madre, ne aveva occultato il cadavere in un baule e per parecchio tempo si era «intrattenuto con donnine allegre (così all’epoca il Corriere della sera) accanto al salottino dove l’autrice dei suoi giorni putrefaceva nell’inusitato sarcofago».
Scoperto, fu processato e condannato a quindici anni senza l’attenuante dell’infermità mentale. Gadda è affascinato da questo caso di cronaca, cerca di assistere al processo ma c’è troppa folla, trova che almeno le attenuanti avrebbero dovuto concederle. Pensa di ricavarne, “sherlockholmesianamente”, un romanzo di genere per «arrivare al pubblico fino attraverso il grosso». Ma, nella sua riscrittura letteraria, il ragazzo non sarebbe stato il vero matricida: avrebbe assistito al matricidio senza potere (e forse senza volere) far nulla per impedirlo.
Una costante
Girare intorno al tema del matricidio è la vera costante nell’opera di Gadda: nella Cognizione del dolore don Gonzalo, come Ivan Karamazov, commette un matricidio per procura, allontanandosi dopo aver reso il matricidio possibile; nel Pasticciaccio di via Merulana la colpevole prevista (se il romanzo fosse arrivato a conclusione) sarebbe stata Virginia Troddu, cioè la “figlioccia” che la vittima Liliana Balducci avrebbe voluto adottare. Girarci intorno ma senza mai raccontarlo direttamente; quello è il grande interdetto, ciò di cui Gadda non può permettersi di parlare. Sul delitto Pettine scrive una sessantina di pagine (oggi note come Novella seconda) di puro antefatto, senza nemmeno arrivarci vicino all’atto proibito. Non credo sia azzardato ipotizzare che proprio l’interdetto del matricidio sia la causa segreta della incompiutezza di tutti i romanzi gaddiani, di quel suo modo di progettare e non finire che faceva diventar matti gli editori.
Le coperture a difesa sono molte: la prima, certo, è la sua attitudine filosofica. Il matricidio appartiene a una classe più vasta di azioni attraverso le quali il male si afferma nel mondo; per un moralista odiatore del moralismo come lui, il male è insieme atroce e necessario, comico e lirico.
Allargare la visione dal caso singolo significa cogliere l’ampia rete delle concause che possono portare al delitto; il guazzabuglio del cuore umano di manzoniana memoria è anche un groviglio percettivo ed ermeneutico; lasciare aperta una narrazione è essere fedeli alla indecidibilità dei fenomeni. Gadda è ossessionato dalle digressioni, perché solo nelle digressioni si cattura la complessità. Ma le digressioni sono anche un alibi.
La seconda copertura a difesa è l’abilità mostruosa nel bozzetto e nel ritratto veristico (da «minimo zoluzzo di Lombardia», come si definiva). Gadda è un maestro del parlato e dell’indiretto libero: la voce milanese-brianzola (solo dopo, romanesca) della borghesia e del popolo si rivela in minime inflessioni e modi di dire, in scorci, in anacoluti sintattici.
Ma anche qui, e forse sto azzardando davvero stavolta, io ci leggo qualcosa che in un processo penale si chiamerebbe una gigantesca attenuante. Ritraendo con tanta minuziosa acrimonia l’ambiente in cui sua madre ha vissuto e di cui è stata parte, è come se dicesse a un invisibile giudice «io avrei voluto ucciderla perché lei era così».
Verità indicibile
Nelle lettere, dopo la morte della madre e i problemi della casa di proprietà, si leggono parole inequivocabili di astio e di rancore. Pasolini in un magnifico saggio critico scrive che il peccato più terribile per Gadda sarebbe «scrivere come se fosse lui stesso a scrivere: questo il mondo non glielo perdonerebbe mai».
Ma come avrebbe voluto scrivere Gadda se fosse stato lui stesso a scrivere? Avrebbe voluto essere autore di un romanzo con una struttura solida, con un principio un’acme una fine, magari (perché no?) di un romanzo di genere come un poliziesco. Portare a termine un romanzo così avrebbe significato collocare sé stesso nel mondo e il mondo in sé stesso.
Ma non si scrive così se non ammettendo la verità; e la verità più profonda non poteva dirla, perché è una di quelle verità tremende che appunto il mondo non perdona.
Quindi i suoi racconti milanesi gli si intrafunano tra le mani, li sposta e li riadatta da un libro all’altro, vuole farli diventare romanzo e il romanzo gli si spezzetta in racconti. Si nasconde, si nega, ritrae l’assurdità del mondo per non parlare del proprio assurdo desiderio.
La terza copertura a difesa è l’ironia linguistica, il ghiribizzo formale, il ricorso lessicale a tutto ciò che può allontanare dal centro. Il francesismo e il calco classico, la sintassi involuta e indigesta per il lettore comune, il cursus cinque-seicentesco, il tecnicismo ingegneresco e la volgarità goliardica. Portare in giro il lettore, con falsi indizi, tra gli spessori del linguaggio come lui porta in giro se stesso per non dire la parola semplice.
È impressionante che nel 1928 tronchi d’improvviso il progetto Pettine quando l’editore Vallecchi, entusiasta, gli scrive «che bello, il romanzo lo intitoleremo Matricidio». Altro che il pluristilismo su cui si sdilinquiscono i professori di scuola media (e un po’ anche Contini che però al matricidio ci arriva, attraverso Proust).
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