La fotografa argentina lunedì inaugurerà una mostra alla Fondazione Cartier-Bresson di Parigi. «Ogni immagine, anche il selfie più banale, è una sorta di negazione della morte»
La felice ripubblicazione del suo libro d’esordio, On The Sixth Day, e l’inaugurazione di una sua mostra, lunedì, alla Fondazione Cartier-Bresson di Parigi, offrono l’occasione per ripercorrere, in prospettiva, il lavoro di uno dei grandi nomi della fotografia contemporanea, quello di Alessandra Sanguinetti.
Il volume, apparso nel 2005 e andato presto fuori catalogo, ha contribuito enormemente alla fortuna della fotografa argentina nata a New York e cresciuta a Buenos Aires, oggi membro di primo piano dell’agenzia Magnum Photos.
Da questo primo e importante lavoro prendono le mosse le due opere successive che le hanno guadagnato la vera notorietà: The Adventures of Guille and Belinda and The Enigmatic Meaning of Their Dreams e The Adventures of Guille and Belinda and The Illusion of an Everlasting Summer.
Tutti e tre i volumi, pubblicati dall’editore inglese MACK, sono stati realizzati nella campagna argentina, in una fattoria vicina a quella in cui la fotografa ha trascorso le vacanze estive per venticinque anni. Guille e Belinda sono due cugine, nipoti di Juana la padrona degli animali a cui On The Sixth Day è dedicato.
Animali da fattoria
Il volume, di formato quadrato come le immagini che raccoglie, ha in copertina l’immagine di due agnellini bianchi legati tra loro da una corda sottile attorno al collo. Quello a sinistra ha il capo coperto da un cappuccio e sbanda verso il margine della foto. L’altro è strattonato dal compagno e sembra che provi a divincolarsi.
Le due figure candide emergono da uno sfondo completamente fuori fuoco. Le teste e gli arti sono mosse, solo il manto di lana è visibile nei dettagli. L’orizzonte divide il giallo-verde della pianura dal grigio-viola del cielo. L’obiettivo stringe i due animali dentro l’inquadratura. Il punto di vista è all’altezza degli animali.
È quest’ultima la grande scelta stilistica che regge tutto il libro che è, nelle intenzioni della Sanguinetti, un omaggio alle creature domestiche e selvatiche che animano la vita rurale della grande pianura argentina. La dedica, al termine della lunga sequenza di immagini, è questa: «Questo libro è dedicato alla straordinaria vita degli animali da fattoria di tutto il mondo. Per tutto quello che devono affrontare, per tutto quello che ci danno e per quello che gli togliamo».
«Ho voluto mostrare una realtà che raramente viene raccontata», spiega a Domani Sanguinetti: «E mai viene fatto guardando ai veri protagonisti, che sono proprio gli animali. Il mio è un omaggio, ma l’ho voluto fare senza sconti, senza romanticherie o idealizzazioni. Per quanto tu possa conoscere un animale, non riuscirai mai a capirlo. È già difficile con un essere umano. Il mio partner, la persona che conosco meglio, rimane un mistero. Figuriamoci un animale».
Ridurre la distanza
È un libro senza compromessi. I colori sono squillanti, quanto quelli saturi alla luce esuberante del sole argentino. Il verde-verde dell’erba, il marrone-marrone della terra, il blu-blu del cielo. E soprattutto il rosso-rosso del sangue.
Ce n’è molto lungo la sequenza. Il sangue di animali uccisi, scuoiati, perfino abortiti. «È la vita normale delle fattorie, dove ogni giorno il contadino uccide un animale per nutrire la propria famiglia. Non c’è nessuna volontà di condanna, nessun dito puntato. Se avessi voluto condannare la violenza contro gli animali, sarei andata a fotografare altrove: negli allevamenti intesivi».
L’inquadratura, dicevamo, è quasi sempre all’altezza dello sguardo dell’animale. Ci sono il ritratto del cavallo e della gallina. Della mucca e del pulcino. La papera e il coniglio. Un gruppo di cani abbaiano, chissà perché, a un maiale disorientato. È una scelta che costringe l’osservatore a uno sguardo incredibilmente ravvicinato, che riduce vertiginosamente la distanza con il soggetto della foto.
Ma questo avvicinarsi, per ragioni tecniche, produce anche una notevole riduzione della profondità di campo, lasciando a fuoco, cioè, il solo soggetto o addirittura solo parte di esso, esaltando il senso di intimità. Tanti di questi scatti hanno tutte le caratteristiche del ritratto classico, con l’unica differenza che a essere ritratti non sono creature umane.
«Non credo che mostrare il carattere di un animale significhi umanizzarlo. Anche perché, pure nei ritratti fatti agli uomini si finisce per proiettare sul soggetto qualcosa che potrebbe anche non avere nulla a che fare con quella persona. I miei animali non sono né metafore, né simboli. Sono ciò che sono».
Il sesto giorno
Eppure, nonostante si tratti innanzitutto di un lavoro di documentazione, è impossibile non leggere nel susseguirsi di queste fotografie un afflato poetico che tocca le cose ultime: vita, morte, gioia, sofferenza, senso del destino.
In sé, basterebbe lo stile con cui sono realizzate a renderle strofe di un poema sull’intreccio di tenerezza e violenza che va in scena in una fattoria argentina. Ma a questo si aggiunge la connotazione biblica data dal titolo dell’opera, che fa riferimento al sesto giorno della creazione, in cui Dio creò gli animali e l’uomo e diede a quest’ultimo il dominio sulle altre creature. Una scelta che sembra sottrarre le immagini alla dimensione storica e particolare per consegnarle a quella mitica e universale.
Contemporaneamente a On The Sixth Day, spiega Sanguinetti, è nato il lavoro con Guille e Belinda, le due cugine che si aggirano nella fattoria, mentre l’artista è concentrata sui ritratti degli animali. Ogni tanto le due ragazzine – all’inizio hanno nove anni – entrano nelle inquadrature, partecipando allo sfondo della vita delle bestie. Poi, pian piano, la fotografa inizia a osservarle e a interagire con loro, in un dialogo che si fa prima complicità e poi amicizia.
Guille e Belinda
Il primo libro dedicato a loro ha un titolo piuttosto didascalico: The Adventures of Guille and Belinda and The Enigmatic Meaning of Their Dreams. Le bambine vengono riprese prima in gesti quotidiani del contesto rurale, poi in giochi di travestimenti diventano una serie di mise-en-scène di presepi, scene angeliche, drammi di gelosia, scherzi sulla maternità futura. In uno scatto, Guille e Belinda appaiono emergere dalle acque di un ruscello a mo’ di una coppia di Ofelie dai vestiti coloratissimi. A volte si tratta di sogni-sogni oppure di sacre rappresentazioni, ma altre ancora ci appaiono come premonizioni oniriche.
«Man mano che le due ragazze crescevano, dovevo cambiare il mio atteggiamento verso di loro», spiega oggi Sanguinetti: «In principio era facile giocare insieme, ma poi le due hanno vissuto un passaggio repentino dall’infanzia all’età adulta, visto che Belinda si è sposata a 16 anni ed è diventata madre a 17».
È questa fase di passaggio a essere a tema del libro successivo The Adventures of Guille and Belinda and The Illusion of an Everlasting Summer. Le due giovani non sono più anime innocenti che danzano nei campi aperti, ma ci appaiono dentro una stanza umile a cucinare, pulire e studiare.
Alla spensieratezza e al gioco si sostituisce una poesia più quotidiana, in cui le marachelle sono sostituite dai baci dati di nascosto, i pancioni fatti per gioco con i cuscini diventano pancioni veri. Appaiono tramonti struggenti, crepuscoli di una giornata che è la stagione di una vita.
«Ormai sono venticinque anni che le frequento e ogni volta che torno desidero andarle a trovare e stare con loro e basta, come si fa con le amiche, senza che in qualche modo ricominci a intromettersi tra noi la macchina fotografica», racconta ancora: «Eppure, ogni volta non c’è niente da fare, finisco sempre per portare a casa qualche scatto».
Animali e bambini
Nell’ultima opera, Some Say Ice (MACK, 2022), Alessandra Sanguinetti torna sugli stessi temi, gli animali e i bambini, ma in un contesto completamente diverso e con uno stile quasi opposto a quello a cui ci aveva abituato. Si tratta della raccolta di immagini in un raffinatissimo bianco e nero, realizzate dal 2014 nella piccola città di Black River Falls nel Wisconsin.
Si tratta della stessa località oggetto di Wisconsin Death Trip, un libro di fotografie scattate da Charles Van Schaick alla fine dell’Ottocento, che documenta la vita e la morte dei suoi abitanti. Sanguinetti trovò una copia di quel volume sugli scaffali della sua casa di Buenos Aires, quando ancora era bambina. La contemplazione di quella teoria di volti, spesso ritratti da morti, è stato il momento in cui, spiega l’artista, ha riconosciuto per la prima la realtà della propria mortalità.
In Some Say Ice gli animali sono ritratti come sculture. I volti di bambini, giovani e vecchi sono austeri. Glaciali. L’inverno domina il paesaggio. Il titolo del libro è un verso rubato a una poesia di Robert Frost: «Alcuni dicono che il mondo finirà nel fuoco, / Alcuni dicono nel ghiaccio».
«Mentre lavoravo a Black River Falls, è come se stessi cercando di risolvere un mistero o trovare il colpevole di un delitto», spiega Sanguinetti: «Cercavo indizi per trovare una risposta valida a qualcosa per la quale non possono esserci risposte valide». È stato, continua l’artista, una sorta di esorcismo per allontanare la paura della morte.
È qui, probabilmente, che si riannodano i fili iniziati a tessere nella campagna argentina, dove il manto candido degli agnelli era macchiato dal rosso del sangue e dove il sogno dell’infanzia sbiadiva nell’arido vero della quotidianità: «Il motivo per cui fotografo, e il motivo per cui forse tutti noi lo facciamo, che lo ammettiamo o meno, è che non vogliamo scomparire. Ogni immagine, anche il selfie più banale, è una sorta di negazione della morte».
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