Francesca Siano, in arte Francamente, è stata esclusa dalla finale di X Factor; molti (me compreso) hanno trovato scandaloso il verdetto, dato che era sembrata la migliore per musicalità e novità espressiva – gli stessi giudici sono apparsi affranti e perplessi. Si è voluto attribuire lo sconcertante risultato del televoto al fatto che sia una donna, lesbica, o addirittura si è detto che l’ingiustizia stava a monte perché su quattro giudici tre erano maschi.

In realtà il suo giudice (il maschio etero Francesco Vigorelli, in arte Jake la Furia) l’ha sostenuta come ha potuto e nelle strisce quotidiane del backstage ha ammesso di aver imparato molto da lei proprio sulle questioni della parità di genere. Giocavano a prendersi in giro ma era un rapporto bello e si vedeva.

Moshtari Hilal, un’artista visiva e scrittrice tedesca di origine afghana, ha pubblicato di recente da Fandango un libro intitolato Bruttezza, in cui sostiene che la bruttezza è un prodotto della razzializzazione imposta dal capitalismo, o di parametri comunque violenti e patriarcali che vigono anche nelle culture più separate e lontane. Lei stessa ha ammesso in un’intervista di «trovarsi a disagio» nel maneggiare il concetto di bellezza, e nega comunque che possano esistere dei criteri generali per definire un corpo bello o brutto, perché ogni affermazione in merito deve essere ‘"situata” politicamente. (Poi dice che coi paesaggi si può fare, chissà perché).

Sono idee che circolano da parecchi anni, secondo cui le verità universali non esistono e devono essere considerate strumenti di potere. Bisogna «decostruire lo sguardo» (e l’orecchio, e il gusto) per liberarsi da condizionamenti inconsciamente padronali. Ma se i criteri di giudizio dipendono dalla cultura di chi giudica, perché scandalizzarsi se il giudizio dei molti sconfessa quello degli esperti? Da che parte sta la ragione, chi dev’essere educato da chi?

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Le favole di ogni tempo e paese prevedono l’esistenza di uomini e donne brutti; ma le favole, si sa, sono una delle espressioni più profonde di una determinata cultura – le favole nuove e corrette non avranno più né brutti né belli, ma chi decide se queste nuove favole saranno più o meno belle di quelle scorrette e antiche?

Quando dalla bellezza fisica di un corpo (o di un paesaggio) si passa alla bellezza artistica, le questioni si fanno spinose; non si tratta più di proteggere questa o quella persona (o categoria) da un giudizio offensivo, qui è in ballo la possibilità stessa di salvare i capolavori del passato e di mantenere in funzione una capacità critica nei confronti di quel che si produce oggi. Se c’è un problema con la bellezza, bisognerà affrontarlo anche dal di dentro, iuxta propria principia, e non soltanto a partire dall’esteriorità del contesto; perché la bellezza mette in imbarazzo la giustizia?

I doveri del lettore e dell’ascoltatore

Spesso non si ha il coraggio di dirlo, sembra una cosa anti-democratica, ma la bellezza non è inclusiva; le masse di solito hanno un pessimo gusto estetico e quando devono scegliere tra vari prodotti artistici molto spesso scelgono il peggiore. La bellezza non è inclusiva ma non per questo è fascista: semplicemente, per essere riconosciuta e apprezzata, necessita di qualche competenza tecnica e di un’esperienza non troppo disordinata di fruizione – Daniel Pennac ha elencato i diritti del lettore, ma si dovranno fissare anche i doveri del lettore (o dell’ascoltatore, o del frequentatore di mostre) se costui vuole essere attendibile quando giudica.

La scuola dovrebbe educare ai linguaggi dell’arte, senza esimersi da un’attitudine giudicante; ci si dovrebbe abituare a notare le ingenuità, i passi falsi, i sonnecchiamenti anche dei classici, magari mettendo a confronto successive stesure e correzioni. Si dovrebbe far notare, in ogni epoca, la diversa pressione dei mecenati o del mercato; vedere i pregi e i difetti di un’arte più colta o più popolare, senza trincerarsi dietro il comodo escamotage dell’oggettività storica o dietro l’esercizio più faticoso del dichiarare ogni opera ingiudicabile perché compromessa con questo o quel pregiudizio. Non nego le importanti storture sistemiche legate al gender o al colonialismo, non mi nascondo i meccanismi di potere; dico solo che l’attuale ignoranza estetica è anch’essa "sistemica”.

Insisto cocciutamente su alcuni tratti universali del brutto, e quindi del bello: penso per esempio alle stonature (quelle non organizzate per diventare tema espressivo), alle incoerenze tra vari livelli della forma, a quel micidiale roditore della bellezza che è il comico involontario; per tornare un istante alla bellezza corporea, penso a quanto siano brutti gli uomini e le donne che non accettano il passare del tempo e credono di rimediarvi con la chirurgia e il fashion (non è per caso che Pirandello cominci, nella sua analisi del comico, dall’immagine di una «vecchia imbellettata e parata d’abiti giovanili»).

La coscienza della bruttezza

Si va perdendo la coscienza delle stonature, forse le regole del gioco stanno cambiando ma allora è obbligatorio cercare di capire perché e in che direzione. Ho l’impressione che stiano molto cambiando i modi per raggiungere il piacere: sta prevalendo una specie di piacere diffuso e facile – scrollando l’iPhone si può vedere o leggere una cosa piacevole o interessante ogni trenta secondi, non c’è esperienza reale che possa tenere questa media.

Gran parte del piacere artistico è invece piacere difficile, differito, mischiato di allarme, angoscia, sforzo; spesso isola chi lo prova, non è sempre un orgasmo che possa risolversi in una festa consolatoria. Soprattutto i giovani fanno fatica a districarsi tra reale e virtuale, molti loro comportamenti sembrano obbedire a una forma di de-realizzazione del quotidiano.

L’arte è invece creazione di realtà alternative, la sua forza conoscitiva presuppone una lotta con le censure e le repressioni della realtà empirica, è un sogno fatto in presenza dei conflitti di quando ci si sveglia. Altrimenti è un vago stato di ipnosi, un abbracciarsi sotto droga, un tenersi stretti per stare al caldo. Il progetto artistico si sgretola tra le mani di chi lo immagina, trasformandosi in una preghiera di accettazione; per il fruitore prevale l’adesione immediata, effimera, "di pancia”, per il creatore il miraggio di una “missione persuasiva” – all’orizzonte di entrambi si profila il totem del televoto («ditemi subito, in pochi secondi, che sono promosso»).

La post-verità della tecnologia

Il televoto è il luogo mistico in cui coincidono democrazia diretta e interessi commerciali, anche nel caso di X Factor non sapremo mai quanti voti siano genuini e quanti siano invece accaparrati da società discografiche con antenne che fiutano il mercato futuro. L’illusione che «il pubblico ha sempre ragione» è figlia (o madre) del mito dell’agorà virtuale; i populisti di qualunque confessione mostrano una chiassosa e sospetta dedizione alla volontà del popolo.

In un libro di Yascha Mounk ho trovato una deliziosa giustificazione del regime parlamentare da parte di John Adams, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti d’America: è necessario che ci sia il Parlamento, scrive Adams con rammarico, perché gli elettori «non possono percorrere ogni volta ottocento chilometri, non hanno tempo né un posto dove riunirsi». La tecnologia oggi gli sarebbe venuta in soccorso. Ma più in soccorso gli sarebbe venuta la riflessione di James Madison (altro padre fondatore, uno degli estensori della Costituzione): «un governo popolare, senza l’informazione popolare e i mezzi per acquisirla, non è che il prologo di una farsa o di una tragedia, o forse di entrambe». Sembra scritto oggi.

La tecnologia ci sta immettendo in un mondo di post-verità, i social ci dicono quel che vogliamo essere e quel che possiamo desiderare; l’identità è un biglietto da visita, l’assenza di libertà sta diventando istinto. I giovani si sentono, allo stesso tempo, superiori e non all’altezza della democrazia: se il voto politico assomiglia al televoto di X Factor, non resta che seguire le indicazioni di Giorgia.

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