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Ho la sensazione che le persone vogliano sapere in realtà da me soprattutto una cosa, sempre la stessa. Vogliono sapere quanto dormo
- Ogni mattina quando mi sveglio le prime persone a cui penso sono Orietta Berti e Arianna Huffington
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Mi sveglio molto presto, prima delle cinque, ogni giorno: e ogni giorno, quando mi sveglio, le prime persone a cui penso sono Orietta Berti e Arianna Huffington. A volte è Orietta Berti ad avere la meglio. Altre volte prevale Arianna Huffington. Dipende dalla giornata. Ma partiamo dall’inizio.
Principale curiosità
Da un anno e mezzo ogni mattina preparo e conduco un podcast, una rassegna stampa. Il podcast ha ottenuto buoni risultati, per fortuna, nel super competitivo mercato italiano dell’informazione che si ascolta: si è guadagnato un pubblico numeroso e affezionato, ha vinto qualche premio e recentemente il New Yorker – quel New Yorker – ha voluto raccontarne il progetto e la storia. Bello, no? Molto bello.
Eppure ho la sensazione che le persone con cui mi capita di parlarne, che sia durante una grande conferenza sul giornalismo o una chiacchierata informale al bar, vogliano sapere in realtà da me soprattutto una cosa, sempre la stessa, e che quella cosa non riguardi davvero il prodotto in sé bensì le condizioni in cui nasce. In pubblico mi chiedono delle scelte editoriali, dei modelli di business, del futuro dei prodotti audio… ma in privato la domanda è una sola, sempre quella.
Le persone vogliono sapere quanto dormo. Oppure a che ora vado a dormire. Oppure se durante il giorno prendo delle pillole per tenermi sveglio, o se faccio o no una pennichella dopo pranzo. Altre volte mi chiedono semplicemente «come fai?», col tono che immagino possa usare chi si rivolga a qualcuno che abbia appena visto volare tra un grattacielo e l’altro, e io so a cosa si riferiscono.
La vera domanda
Di solito dissimulo e cerco di passare oltre, dico che svegliarsi ogni giorno alle 4:45 non è poi così difficile, che è solo questione di abitudine e che comunque no, non vado a letto presto, non voglio rinunciare a una vita normale andando a dormire alle nove e mezza, quindi dormo poco eppure sono ancora vivo e anche piuttosto felice, nonostante l’app che ho installato sul mio smartphone e monitora il mio sonno dica che dormo circa quattro ore per notte (a volte cinque, a volte tre).
Inoltre, faccio notare che tantissime persone si svegliano molto presto per lavorare o per scelta, da chi guida il tram a chi fa il pane, e poi le persone che lavorano in ospedale, negli aeroporti, in catena di montaggio… insomma, faccio un lavoro come un altro, pure piuttosto comodo: circolare, niente da vedere. Tutto vero.
Ma per quanto possa sbuffare internamente ogni volta che qualcuno mi introduce usando la sveglia come prima riga della mia biografia – «si chiama Francesco Costa e si sveglia prestissimo!» – è vero che durante questo anno e mezzo il sonno e la sua gestione hanno scalato la classifica dei miei pensieri e delle mie preoccupazioni.
Anche perché dopo la sveglia alle 4:45, nel resto della giornata lavoro come sempre, cioè come prima: faccio il vicedirettore del Post, partecipo a eventi e conferenze anche serali, ho scritto un libro che sto presentando in giro per l’Italia, la pennichella dopo pranzo è un evento piuttosto raro. La domanda altrui in fondo è anche la mia, insomma: per quanto tempo andrò avanti?
Horror vacui
Sia chiaro, sapevo a cosa andavo incontro, quando ho cominciato: avrei avuto mattine molto più lunghe ma serate molto più brevi; scrivere all’alba o la notte, i momenti in assoluto più silenziosi e produttivi, sarebbe diventato impossibile; avrei dormito in generale molto meno di prima. Questo scenario, però, mi sembrava una liberazione: costringermi a dormire meno mi sembrava una liberazione.
Certo, per stare bene – qualsiasi cosa voglia dire – bisogna dormire otto ore per notte, lo dicono sia la scienza che il buon senso, e i loro argomenti sono inoppugnabili: ma l’idea di trascorrere dormendo otto ore su 24, cioè un terzo di ogni giornata, cioè un terzo della vita, mi ha sempre trasmesso un grande senso di angoscia, una specie di horror vacui.
Dormire è un’attività indubbiamente piacevole, oltre che necessaria: ma se non fosse necessaria, la sua piacevolezza basterebbe a farci scegliere di assentarci per ben otto ore ogni giorno dalla realtà, dalle persone, dall’esperienza del mondo, da tutte le cose-per-cui-vale-la-pena-vivere? C’è qualcuno che in punto di morte, ripercorrendo i ricordi e i momenti più importanti della propria esistenza, rimpianga di non aver dormito abbastanza? Tenderei a escluderlo.
Ma la prendo da un altro lato. Quante cose avete fatto negli ultimi trent’anni? In quanti modi è cambiata la vostra vita negli ultimi trent’anni? Quante cose è possibile fare in trent’anni? Quanta vita contengono trent’anni? Tanta vita, immagino: già.
Ora immaginate di avere la fortuna di campare fino a novant’anni: potendo scegliere quando e quanto dormire, davvero rinuncereste a trenta di quei novant’anni? Il nostro tempo su questo pianeta è limitato e non possiamo fare a meno di dormire, noi esseri umani: per questo cercare di dormire meno mi è sempre sembrato il metodo più semplice ed efficace per rubare del tempo alla vita.
Per leggere un libro in più, per ascoltare un disco in più, per sentire un amico in più, per fare una passeggiata in più, per vedere un posto in più o per fare una cosa in più, qualsiasi cosa: per vivere un po’ di più.
Primi tempi
Dopo le prime due settimane di sveglie alle 4:45, una sera all’ora dell’aperitivo ho visto un ex collega che non incontravo da un po’. Mi ha chiesto della mia nuova routine, ho risposto che fin lì stava andando bene e ho aggiunto che certo, ero un po’ stanco, ma mi sarei abituato. Lui, invece, era sconcertato.
Mi ha raccontato di essere reduce dalla lettura di un saggio sul sonno e sulla sua importanza il cui autore – citando alcuni studi che comprenderete non ho alcuna voglia di andare a cercare – sosteneva che è sufficiente dormire meno di sei ore a notte per tre o quattro notti consecutive perché la propria lucidità mentale precipiti più o meno sul livello di chi ha bevuto due o tre bicchieri di troppo.
Andare in giro o lavorare senza aver dormito abbastanza, insomma, sarebbe come andare in giro o lavorare da ubriachi. Con affetto e preoccupazione, il mio ex collega aveva opposto tutta la forza della scienza e del metodo scientifico al mio scetticismo evidentemente interessato – «ci sono gli studi!», «hanno fatto gli esperimenti!» – ma ricordo di aver pensato: se anche io funziono così, me ne accorgerò molto presto. Col passare dei giorni, l’attesa del verdetto che il mio corpo avrebbe emesso su quel nuovo stile di vita – dormire tre o quattro ore per notte – mi aveva convinto dell’esistenza di due soli scenari possibili: lo scenario Orietta Berti e lo scenario Arianna Huffington.
Le due possibilità
Orietta Berti sarebbe stato il miglior scenario possibile: la famosa e amata cantante italiana ha raccontato più volte, nel corso degli anni, di dormire soltanto due o tre ore per notte, cioè persino meno di quanto dorma io, e di essere molto felice e soddisfatta così. Nel resto del tempo legge, studia le scalette dei concerti, sente i suoi amici e parenti in Australia e «faccio qualche ragù»: che meraviglia.
Il peggior scenario possibile, invece, nella mia testa aveva la faccia di Arianna Huffington: la nota imprenditrice statunitense lavorava 18 ore al giorno, dormiva pochissimo e saltava da un aereo all’altro, finché un pomeriggio del 2007 non svenne a casa mentre rispondeva alle email. Si risvegliò qualche ora dopo a terra, in una pozza di sangue, con uno zigomo rotto e un taglio sotto l’occhio. Il verdetto dei medici fu unanime: doveva dormire di più. Da allora Huffington ha stravolto il suo stile di vita ed è diventata una specie di attivista e fanatica del sonno (ci ha persino scritto un libro, sicuramente di giorno).
Un anno e mezzo dopo quell’aperitivo con il mio ex collega, dormo ancora quattro ore per notte e posso ribadire la stessa risposta: fin qui, tutto bene. C’è stato un faticoso periodo di assestamento di orari e abitudini, ho ridotto un po’ il carico di lavoro nel resto della giornata e ho imparato l’arte del power nap, il brevissimo pisolino strategico, che riesco a esercitare in quasi ogni contesto. Certi giorni sono uno straccio, ma quei giorni sono l’eccezione e non la regola.
Nonostante questo, ogni mattina quando mi sveglio il primo pensiero è sempre un’imprecazione, seguito da un dilemma che continua a perseguitarmi: finirò Orietta Berti o Arianna Huffington? In attesa di scoprirlo, continuo a rubare un po’ di tempo alla vita.
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