Tornò a casa da scuola. Solo il cane al centro del soggiorno, simmetrico a un’emozione. Era gemello al cane. Nove anni entrambi. Si tolse lo zaino e quando planò sullo sguardo del suo cane sapeva che lo avrebbe ucciso oggi.

Lo teneva per il collare. Non aveva mai usato il guinzaglio. Gli piaceva sentire il caldo del corpo del cane mentre camminavano. Gli era normale. Quei due non avevano scelto mai niente. Giunti davanti al dirupo lui lo abbracciò per prenderlo. Poi lo lanciò nel vuoto. Il cane cadde con la testa in avanti e il corpo si stese di lato. Scese a controllare. Non riuscì più a trovare nel cane un’espressione loro, condivisa, e immagazzinò un sentimento che gli avrebbe fatto pensare in quegli anni di non saper distinguere una cosa dall’altra senza l’opinione del cane, del suo cane ora fermo, grigio, del brutto che fa la polvere. Il bambino si accarezzò i capelli e le braccia, mise il broncio e sentì vento, risalendo e poi andando dritto per tornare. A metà strada incontrò una serie di alberi. Ci si ritrovò mentre il cuore batteva meno. Era lì negli alberi e stava andando a casa. Si immaginò guardato tra quegli alberi.

Paura

È normale che un figlio abbia paura del proprio padre? Sì se il figlio ha paura del buio, di troppo mare, delle malattie, dell’incerto e delle botte, dei silenzi e dei segreti, dei sospetti, dei ricordi, della voce bassa. Sì se il padre ha paura del figlio.

«Apetta non c’è più» disse il padre.

«Apetta?» chiese voltandosi esageratamente.

Al padre bastò quella girata a piena faccia per capire. In un secondo, da che sospettava, sapeva. Da che immaginava, si sconfisse. Era un figlio che aveva fatto qualcosa che lui non sarebbe stato in grado di comprendere. L’inizio di una grande cosa lontana e violentissima. «Non c’è, non lo trovo» disse tanto per prendere tempo. «Hai visto a cuccietta?» chiese ancora il figlio. Fastidio tozzo nelle loro parole cuccietta e Apetta che da oggi, da adesso, da qui, equivalgono a dolore, rimpianto, rabbia, interrogativi.

Il padre non poté evitare di battere due volte l’indice sulla maniglia del frigorifero. Il figlio così nuovo e platealmente suo lo stava ancora fissando, recitando così bene e così male, quasi sfacciato, che il padre dovette aprire il frigo e bere dell’acqua che non voleva per evitare quella faccia con quegli occhi. Mentre beveva avvertì che il figlio s’era girato. Continuò a bere per avere maggiore sicurezza di non ritrovarselo davanti una volta finito il secondo sorso. Ripose la boccia d’acqua in frigo. Chiuse il frigo. Il figlio era di schiena. Gli vide il dietro dei capelli.

Fa troppo poco freddo per essere così buio, aveva pensato mentre sistemava le canne, risolveva le lenze e i due mulinelli, finendo per piazzare un secchio vuoto al centro. Erano divisi da quel secchio, a pescare insieme. Il figlio prese i primi pesci. Il padre ne sentiva l’odore nel secchio. Li ha presi mio figlio e il figlio pensava a tante cose che dimenticava non appena la canna tirava. Un’eccessiva concentrazione ti farà perdere il pesce. Lo sapeva senza averci mai riflettuto e stanotte li prendeva così, i pesci. Il secchio era pieno per metà e per merito suo. Quando il padre ne prese finalmente uno lo lasciò cadere nel secchio come se non fosse importante. È vero che il mondo è grande e che esistono tutte queste vite, a miliardi, ma a volte il mondo è anche solo un tratto di scoglio con due che pescano e un secchio in mezzo.

Silenzi

Erano passati mesi dalla sparizione di Apetta e il padre non affrontò mai la faccenda con lui. Questo non significava che non si interrogasse a cadenza settimanale sull’accaduto e i suoi motivi. Sapeva che era stato il figlio. Effettivamente il cane non lo vide mai giù, alla fine del dirupo. Non se lo sarebbe neppure immaginato. Chissà perché se lo figurava o abbandonato e vivo ma lontano, o abbandonato e arrotato da qualche macchina. Rumore del secchio che ormai contiene più pesce che spazio. Il padre deglutì e pensò che suo figlio non era mai stato così piccolo.

Il figlio invece pensò a un’altra cosa, con la lenza di nuovo in acqua nel mare pieno e semplice. Pensò, dopo un lieve mancamento di concetti, al nome del padre. Si chiese momentaneamente se quel nome fos­se bello, se il suo nome era più bello di quello del pa­dre. Concluse che l’uno non era chissà quanto mi­gliore dell’altro e poi si soffermò su questo, come una fulminazione: mio padre si chiama e si chiamerà Roberto.

Roberto rimase a lungo in silenzio. E a lungo sem­brava fosse lì lì per dire qualcosa.

Un padre che è in quel luogo per dirti quello che ricorderai per sempre.

Si arricciò i baffi e rimase così fino a un colpo di tosse. Torniamo a casa adesso. Prendiamo i cornetti al bar, non li mangi mai così caldi come a quest’ora. Vedrai.


Il racconto è un estratto da Data di nascita a cura di Teresa Ciabatti, (Solferino 2022, pp. 240, euro 16,50) 

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