- Ho conosciuto Tito Faraci in una sera d’estate di diversi anni fa, a Milano, su una terrazza che guarda piazza del Duomo che forse non esiste più. Suonava un gruppo di suoi amici, in comune con uno scrittore amico mio, e si parlava di un progetto al quale Tito aveva preso parte.
- Quando gli ho spiegato, con difficoltà, chi ero e perché ero lì, lui ha fatto, rivolgendosi a nessuno in particolare tra la calca: «Date al ragazzo i miei contatti!», e poi è sparito dalla mia vista.
- Questa è un’introduzione personale, sì, a un articolo che dovrebbe raccontare di un libro. Ma con Tito è così: non si può lasciare la professionalità troppo distante dall’intimità, perché tutto nasce, cresce e deriva dai rapporti, dallo scambio di idee, dal genio dell’istante.
Ho conosciuto Tito Faraci in una sera d’estate di diversi anni fa, a Milano, su una terrazza che guarda piazza del Duomo che forse non esiste più; o forse è così cambiata da non essere più riconoscibile. Non ci sono mai tornato dopo quell’occasione e non saprei dire quale sia stato il suo destino. Era affollata, allora, come ai tempi in cui si potevano fare le feste nelle quali era difficile farsi largo se non a gomitate potenti e io ci ero andato proprio per conoscere Tito. Suonava un gruppo di suoi amici, in comune con uno scrittore amico mio, e si parlava di un progetto al quale Tito aveva preso parte.
Sono quello che si può definire un “lettore fortissimo” di Topolino, come direbbe l’ex direttrice Valentina De Poli, e un fruitore entusiasta di fumetti. Non un fissato, ma dalla mia infanzia mi sono scavato una nicchia nella quale mi trovo piuttosto comodo, e il fumetto italiano per me è sempre stato un punto di riferimento.
Molto più dei manga – che non ho mai realmente studiato – o degli albi di supereroi, che conosco pochissimo. Per me c’erano Silver, Bonvi, Bonfatti, Rodolfo Cimino, Giorgio Cavazzano, Magnus, Max Bunker, Tiziano Sclavi, Silvia Ziche e, ovviamente, Tito, che a sua volta è riuscito a destreggiarsi tra tutti questi nomi, toccando con abilità le produzioni e lasciando qualcosa di suo praticamente ovunque: da Dylan Dog a Tex, da Lupo Alberto a Cattivik, da Diabolik all’Uomo Ragno, fino a comparire come guest star fumettata in una vignetta del geniale Rat-Man di Leo Ortolani. Will Eisner, Frank Miller, Art Spiegelman, persino Harvey Pekar e Bob Crumb, per me, sono venuti dopo.
Volevo conoscere Tito perché volevo scrivere per Topolino, che è stata la sua alma mater e il primo posto dove ho trovato il suo nome – mi perdonerà per questo, ma ormai dovrebbe sapere di avere un’età – da bambino. L’amico che abbiamo in comune ci ha fatti incontrare in quel bagno di folla, con un drink in mano e l’impossibilità di scambiare più di due parole prima di essere urtati malamente da qualcuno che cercava di passare e di raggiungere un bancone, o il centro della pista.
Quando gli ho spiegato, con difficoltà, chi ero e perché ero lì, lui ha fatto, rivolgendosi a nessuno in particolare tra la calca: «Date al ragazzo i miei contatti!», e poi è sparito dalla mia vista. Mi bastava. Il giorno dopo gli ho scritto una lunga email piena di sentimento, che ad oggi rimane senza risposta.
Tutto deriva dai rapporti
Questa è un’introduzione personale, sì, a un articolo che dovrebbe raccontare di un libro. Ma con Tito è così: non si può lasciare la professionalità troppo distante dall’intimità, perché tutto nasce, cresce e deriva dai rapporti, dallo scambio di idee, dal genio dell’istante. È stato il suo primo insegnamento ed è quello che conservo più gelosamente. Ed è per questo, penso, per questa sua strana etica dell’amicizia, che ha scritto L’uomo con la faccia in ombra (Feltrinelli) mescolando così sfacciatamente il memoir al manuale di scrittura. Perché non esiste scrittura fuori dalla sua quotidianità; perché con lui ogni momento è degno di finire sceneggiato o romanzato o raccontato e non c’è davvero un istante di asettico distacco per riordinare le idee.
Dopo il nostro primo incontro, non ci siamo più visti per un anno, o giù di lì. Ci siamo rincontrati per lavorare a un podcast. Anzi, all’idea di un podcast, che poi sarebbe stato il suo bel Tizzoni d’inferno, che ormai trasmette da una decina d’anni. Non si ricordava di me, non sapeva quasi niente della mia email e del perché l’avessi scritta, ma ha dissimulato da galantuomo con grande abilità, promettendomi che avremmo parlato del mio futuro tra paperi e topi.
Non è successo, in quel momento, ma non è stata tutta colpa sua. Io gli ho mandato alcuni soggetti che non andavano bene e il discorso è caduto. Siamo però diventati amici e, ancora diversi mesi dopo, sul lago Maggiore, in un altro pomeriggio di tarda estate, ho preso un respiro e gli ho chiesto: «Senti, di quella cosa di Topolino non se ne fa niente, allora?».
Mi ha guardato: «Cosa hai fatto oggi?»; «Ho pulito la griglia»; «Scrivi un soggetto con Paperino, Anacleto, e la griglia». È stata la prima storia che ho scritto per Topolino, e Tito era appena diventato il mio primo maestro. Quando è stata pubblicata, mi ha telefonato mentre stavo attraversando una strada piuttosto trafficata di Roma. «Benvenuto sul Topo», mi ha detto. Io, ebete, mi sono quasi fatto investire.
La vita e il fumetto
Non ci siamo mai davvero seduti a parlare di come si sceneggia una storia a fumetti, ma per anni mi ha corretto con pazienza fintamente celata, mi ha sgridato per cose che a lui parevano ovvie e che per me non lo sono tutt’ora, mi ha permesso di affacciarmi sul suo metodo, sul suo mondo, sulla sua vita, che poi è esattamente il fulcro della sua produzione. Mi ha insegnato mostrandomi cosa non si fa dopo che lo avevo già fatto, e portandomi dentro la sua quotidianità a vedere da dove vengono le idee e come si mettono in pratica.
L’uomo con la faccia in ombra è questo: un manuale che non può esistere senza le vicende e l’epica personale dello scrittore. Tito non potrebbe dire come scrivere una sceneggiatura, senza spiegare il processo esistenziale che lo ha portato ad imparare a sua volta. Non potrebbe parlare del modo giusto di fare le cose, senza elencare le decine di volte in cui lui ha sbagliato, si è trovato col sedere a terra e ha dovuto rimediare.
È più che imparare a nuotare buttandosi in acqua, è imparare a volare lanciandosi da una rupe. E se avesse dovuto scrivere un libro in cui si limitava a spiegare il “come” (lo ha fatto, in altre occasioni, credo sotto minaccia), probabilmente non lo avrebbe mai consegnato. Il suo scopo non è quello di dare al lettore gli strumenti per mettere assieme una storia impeccabile, ma di fornirgli un universo sul quale contare per provarci.
L’uomo con la faccia in ombra è una storia di vita che contiene dei suggerimenti su come scrivere un fumetto, incidentalmente impartiti da uno dei migliori fumettisti sulla piazza; la vita e il fumetto sono un tutt’uno, e se fosse altrimenti, Faraci non esisterebbe.
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