La copertina dell’inserto Finzioni del mese di dicembre è firmata dall’illustratore, scrittore, art director sardo che ha fatto della sintesi visiva la sua cifra distintiva: «Ho iniziato a disegnare grazie al fermo immagine nel VHS». «Come si può oggi pensare di inventare ancora qualcosa?»
Il nuovo numero di Finzioni sarà disponibile sulla app di Domani, sullo sfogliatore online e in edicola da sabato 14 dicembre
La copertina dell’inserto Finzioni del mese di dicembre è firmata da Ivan Canu, illustratore, scrittore, art director italiano che ha fatto della sintesi visiva la sua cifra distintiva. Nato ad Alghero e laureato in Lettere con specializzazione in Storia del Teatro, ha iniziato la sua carriera come art director della rivista Hystrio e della Fondazione Balzan, dove ha affinato un approccio alla grafica che mescola precisione e ricerca culturale. In quegli anni ha avuto la fortuna di lavorare accanto al maestro Férenc Pintér, un incontro che ha segnato la sua visione dell'illustrazione: non più semplice decorazione, ma un linguaggio complesso, ricco di riferimenti storici, letterari e visivi.
Il suo lavoro è un continuo confronto tra tradizione e innovazione. Le collaborazioni con testate come La Repubblica, Il Sole 24 Ore, Die Zeit, The Wall Street Journal lo hanno reso un punto di riferimento nell'illustrazione editoriale italiana e internazionale.
Dal 2009 è co-fondatore e direttore del Mimaster Illustrazione di Milano, un centro di formazione che ha contribuito a formare le nuove generazioni di illustratori. Il suo impegno didattico si affianca alla produzione editoriale: oltre che autore del podcast Il Mondo di Tolkien (Storytel, 2019), ha scritto e illustrato diversi libri, pubblicati anche in Francia, Cina, Giappone e Corea, tra cui God Save the Queen (2021), un omaggio alla regina Elisabetta II che fonde pop culture e storia, e Breve Storia del K-pop (2024), un’analisi del fenomeno musicale globale che ha ridisegnato la cultura pop contemporanea.
Il lavoro di Canu ha ricevuto numerosi riconoscimenti internazionali, tra cui premi da American Illustration e Communication Arts, e le sue opere sono state esposte in mostre prestigiose come la Society of Illustrators di New York. È curatore e organizzatore di eventi legati all'illustrazione, come il programma The Illustrators Survival Corner per la Fiera del Libro per Ragazzi di Bologna e per diverse fiere e festival in giro per il mondo.
Quando ha deciso o scelto di diventare un illustratore?
Come tanti, ho sempre disegnato: soldatini, battaglie, i cartoni Hanna & Barbera e i personaggi degli anime per gli amici, grazie alla magnifica invenzione del fermo immagine nel VHS. Sono un fiero figlio della prima invasione nipponica degli anni ’80. Ma era un hobby. Dal liceo classico all’università, sono sempre stato un eccentrico, quanto a formazione. Ho iniziato a lavorare come critico teatrale e cinematografico per la rivista Hystrio, della quale, grazie proprio al fatto che sapessi disegnare, sono stato grafico e art director. Quel primo lavoro, a 24 anni, sostiene una tesi ancora valida: la formazione umanistica è la colonna vertebrale della duttilità professionale. Il fatto che avessi studiato registi e attori, spettacoli e drammaturghi, mi ha consentito di interpretare le copertine, illustrare rubriche e ritratti e conoscere il maestro della mia giovinezza, Ferenc Pintér, a cui ho commissionato nell’arco di 8 anni diverse copertine. Per due anni ho seguito dei corsi pomeridiani di Illustrazione della Scuola del Fumetto, in cui ho conosciuto futuri amici e colleghi, come Gianni De Conno e Libero Gozzini, che mi hanno convinto che anche quella sarebbe potuta diventare un’altra professione.
In alcune interviste ha parlato dell'importanza della "copia" come fase formativa, nel lavoro creativo. Perché è così essenziale, e quali sono stati i primi artisti o lavori che ha cercato di imitare? Come hanno aiutato a definire il suo stile?
L’accademia d’arte fonda la formazione nella copia, di gessi, di nature morte, di nudi eccetera. Si copia, per acquisire manualità, destrezza, occhio, tecniche. È noioso e faticoso, ma senza copia non si crea nulla, perché il dizionario visuale già esiste e va acquisito e personalizzato. Non mi piace proprio la parola “stile”, è un’ossessione tutta contemporanea del distinguersi ad ogni costo attraverso una forma che originale quasi sempre non è. Come si fa a presumere, oggi, di poter inventare qualcosa? Ecco che possiamo credere di produrre novità solo perché ri-elaboriamo forme e concetti di cui ci si era scordati. Il vintage è una cifra dell’espressione umana. Le mie copie consapevoli, dopo la fase adolescenziale degli anime e dello stile manga, sono state l’arte fra ‘800 e ‘900, le avanguardie, l’arte e l’illustrazione pop e poi alcuni artisti, come Pintér, Czeschka, Gary Kelley, Mike Mignola, Gruau, Saul Bass. Ce ne sarebbero da ringraziare.
Nel suo libro Breve storia del K-Pop, esplora e va ad approfondire un fenomeno. Secondo lei cosa ha reso gli idol coreani così influenti nel mondo?
Gli idol sono creati dalle agenzie e case discografiche attraverso scouting, provini tradizionali, talent e survival show televisivi. Le scuole e agenzie preparano ragazzi/e di bella presenza, nel palco come in foto o sullo schermo, educandoli ad avere personalità intriganti e quelle attrattive specifiche studiate da decenni ormai (da oltre 30 anni) perché siano di successo. L’idol deve essere percepito come simile ai fan in una supposta normalità, perché proviene dalle loro fila, è stato un compagno di scuola o di club sportivo. Grazie al loro amore e supporto (anche economico) supera i suoi limiti con sacrificio e privazioni fino a raggiungere la vetta, l’eccellenza nel canto, nella danza, nelle performance dal vivo, la fama, il successo. Restando umile e riconoscente, perché può perdere tutto in un soffio. Non è proprio un sogno da niente, quello dell’idol. Il pop è una macchina rodata di consenso, a ogni livello e a ogni latitudine del mondo. Pop è cultura giovane per giovani, eccitante, brillante, leggera. L’originalità, l’autorialità, la deviazione dal sistema sono previsti ma il pop li elabora e li restituisce in forma di prodotto per le masse. Gli idol coreani sono giovanissimi e molto belli, mediamente bravi e ottimi performer anche per l’Occidente schizzinoso. Questo grazie agli anni di formazione, che sono tanti e molto duri. Il K-pop nasce come cultura di comunicazione “h24”, ovvero degli idol noi vediamo tutto, perché sono live quasi ogni giorno e in quasi ogni momento della giornata. Eppure l’idol resta anche un po’ misterioso. I fandom così organizzati e potenti, che sono un’altra caratteristica del K-pop, possono citare ogni vezzo, pregio, elemento fisico o psicologico, difetto, dato biografico dell’idol, in una tensione possessiva molto vicina a quella descritta da Roland Barthes nei Frammenti. Eppure, la personalità intima dell’idol sfugge. È un mistero gelosamente tenuto anche dalle agenzie stesse, che dell’idol sono creatrici, tutrici e un po’ pure carnefici.
Il tema di Finzioni è appunto Gli Idoli. Cosa significa per lei un idolo? Quali sono le connessioni con gli idol coreani?
Per me l’idolo si riassume in quel che scriveva Flaubert: «Non si devono toccare gli idoli, altrimenti la doratura resta sulle dita». È l’essenza della nostra società, che carica di responsabilità gli “altri” perché rispondano alle nostre pretese di immanenza e alla ricerca continua di qualcosa che sia al di sopra di noi, ma che possiamo abbattere a piacere se non ci soddisfa. La vita degli idol è una tensione costante fra soddisfare le aspettative di qualcun altro e cercare di non venirne stritolati. C’è un tale potenziale drammatico nella loro esistenza, spesso molto breve (in termini artistici), che non può non essere una calamita per chiunque abbia il senso della performance nel proprio carattere.
Quali sono i riferimenti visivi che ha utilizzato per le illustrazioni del libro Breve storia del K-Pop? Ha fatto ricerche particolari?
Quando ho iniziato a pensare al design del libro, alla copertina e alle illustrazioni mi sono proprio concentrato sulla nozione di “idolo” di cui parlavo. Volendo scrivere una storia del fenomeno ragionata, non preconcetta, ho evitato di seguire la prima ipotesi che derivava dal mio libro precedente, God Save The Queen. Un libro pop, divertito e divertente che aveva preso la Regina Elisabetta II a sintesi concettuale e grafica del mio linguaggio di autore, arrivato fino a quel momento. Questo libro, invece, volevo avesse un’impostazione diversamente spiazzante. Ho attinto all’iconografia del tardo romanticismo della Secessione, dell’art Nouveau/Liberty e dell’art Déco. Avorio e oro. E un’idea geometrica, grafica e totalizzante dell’espressione creativa. Ho voluto raffreddare le composizioni, distaccare i ritratti di questi artisti dalla quotidianità, congelarli in una dimensione ideale. Nella vita e nello spettacolo, sono giovani a noi contemporanei, pieni di energia e vitalità, adorati da milioni di fan in tutto il mondo. Ma sono idoli contemporanei, fissati in una dimensione parallela a quella in cui i fan vivono. Per questo, nella copertina, ho rappresentato Hyunjin, del gruppo Stray Kids, diviso fra una serpentina Medusa che ci impietrisce con gli occhi d’oro e lo Jokanaan della Salomé di Wilde, incoronato dai tipici lightstick dei concerti K-pop.
Lei è direttore del Mimaster, quindi si confronta ogni giorno con giovani illustratori. Come è cambiato l'approccio dei suoi studenti al mondo dell'illustrazione e del lavoro come illustratore? E come il suo modo di insegnare è evoluto nel tempo?
Al Mimaster Illustrazione, la scuola che da 16 anni dirigo insieme a Giacomo Benelli a Milano, raccontiamo molto del mestiere, di com’è fatto, di quel che comporta essere illustratori nel divenire del mercato internazionale. Per chi si affaccia ora al mondo dell’illustrazione, ci sono molte più opzioni e possibilità che a me sono mancate quando ho iniziato, in un mondo analogico in cui tutto era lontano, faticoso e costoso da raggiungere. Col digitale, abbiamo una potenziale banca dati facilmente reperibile. Alcune cose si fanno ancora adesso come prima, le fiere e i festival, le mostre, ma sono più appuntamenti di socializzazione e aggiornamento costanti. D’altra parte, la democratizzazione del mestiere arrivata con la comunicazione social, crea un affollamento, ci son dentro tutti, si sgomita, si fatica a distinguersi. Eppure, studiando il sistema di comunicazione attuale, ci sono più vantaggi che altro. Sotto il profilo psicologico, non è cambiato molto. Tutti vogliamo affermarci, abbiamo fretta anche di farlo. Vogliamo emergere. Non siamo abituati al “no”, al fallimento. Subentra subito la sindrome da impostori o l’ansia da prestazione. La concorrenza è forte, capillare, la fatica che si fa è tanta. Ma anche i corsi, ovunque, sono numerosi e spesso di buon livello. È possibile e relativamente facile entrare in contatto con gli artisti che ammiriamo, con i professionisti con cui vorremmo collaborare. È un mestiere faticoso, sfuggente, ansiogeno, pieno di incognite e di pochissimi punti fermi. Ma è una finestra sui mondi possibili e impossibili. Partecipa della sostanza di quello che Eco diceva dei libri, che sono immortalità all’indietro.
Dopo il libro sul K-pop, pensa di approfondire altre tematiche legate alla cultura pop asiatica? Ha già in mente nuovi progetti?
Ho la tendenza, quando mi occupo di qualche progetto, a esaurire l’argomento e un po’ anche il mio interesse verso qualcosa cui sento di aver già dato un contributo sufficiente. Sul K-pop potrei avere ancora da dire, forse non in altri libri, forse su altri canali. Ad esempio, i drama mi interessano molto, quelli coreani come quelli giapponesi, cinesi e thailandesi. Potrebbe essere un nuovo spunto. Però è vero che ho già in mente un altro progetto, molto diverso. E che ha a che fare con la mia passione per le biografie eccentriche e per il fumetto. Però mi fermo qua.
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