Adelphi riporta in libreria I viaggi la morte, con un nuovo apparato critico. Sembra solo un’autobiografia, ma all’interno ci sono tracce ontologiche che superano la limitatezza dell’io
Sarebbe sommamente errato credere che un’autobiografia presupponga un io: potrebbe, di contro, fornire prove inconfutabili della sua inesistenza, là dove lo comprime, lo riduce a lacerto e lo elegge a metafora utile sì, ma quanto deperita. E se è vero che, oggi come oggi, in letteratura la lotta alla tracotanza autotelica del soggetto umano ha perso mordente rispetto ai tempi di Georges Perec e Francis Ponge, per menzionare due personaggi illustri d’inossidabile fedeltà al partito delle cose, in filosofia è invece moda recente ma auspicabilmente duratura.
Nondimeno, se si volesse trovare un contributo davvero solido alla causa dell’inesistenza dell’io, e non s’avesse tempo per traversare le maremme delle teorie filosofiche, dove ci s’inzuppa in pantani concettosi e trasandati in stile, l’indirizzo che si raccomanda è quello di Carlo Emilio Gadda.
Certo: l’opera dell’ingegnere è affatto incomprimibile nel campo delle belle lettere, dacché brulica di traversamenti diuturni negli ambiti dei formalismi scientifici, delle teoresi più alte e della psicanalisi più ardita. Eppure, rimane opera somma di letteratura, tanto più incisiva perché i suoi effetti insistono sull’ontologia, sulla gnoseologia e, azzarderei, sull’antropologia.
Di questa felice ipertrofia teoretica non c’è attestazione più esemplare che la recente riedizione de I viaggi la morte da Adelphi, per la pregevole e meticolosa cura di Mariarosa Bricchi.
Un gomitolo
Il libro, pubblicato in origine da Garzanti nel 1958, raccoglie una serie composita di 24 saggi, scritti nell’arco di un trentennio: testi segnati da intenti diversi, oltreché diversi registri, come recensioni, analisi, conferenze, conversazioni radiofoniche. La nuova edizione si avvantaggia di un corposo apparato critico, di cento e passa pagine, in cui si offrono indizi preziosi sui contesti di produzione e si rinvengono tracce di coerenza e punti di frizione tra i vari scritti.
Tra le moltissime linee che portano nella direzione indicata in avvio al presente scritto, vale a dire verso la frantumazione del soggetto individuale, ne indicherei, tra le molte, una in particolare. Una linea che attraversa molti dei testi, qui e lì indaffarati a ribadire quel punto che chiunque voglia dare a intendere d’aver letto Gadda (benché magari non l’abbia mai letto) cita come fosse un guizzo di novità.
Si tratta dell’esistenza di un “nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo” di cause e concause, che rende impossibile isolare un dato evento come fosse il principio imprincipiato di una serie di eventi successivi.
Legami tra gli eventi
Com’è sin troppo noto, Ciccio Ingravallo espone in quel passaggio del Pasticciaccio la propria concezione dell’indagine giudiziaria, che chi scrive ha in massima simpatia perché massimamente (e scopertamente) spinozista.
In breve, secondo il credo metodologico di Ingravallo, esiste un legame, ahinoi impercettibile, tra tutti gli eventi occorsi nell’universo, tale che, per comprendere nei dettagli un singolo evento, sarebbe necessario individuarne i legami con tutti gli altri eventi passati, presenti e futuri.
Insomma, una conoscenza adeguata del perché mio padre nel 1955 scelse di iscriversi alla facoltà di Economia e Commercio della Sapienza di Roma richiede come minimo lo sviluppo di una cosmologia. Ma Gadda, come s’intuisce dalle pagine di Meditazione milanese, non si limita a recepire la teoria del suo predecessore secentesco, e si esercita piuttosto in un’acutissima analisi della causalità come “una maglia o rete a dimensioni infinite”.
Il contributo
Ma noi non si sta qui a far filosofia, e sarà bene quindi tornare al punto, quello più letterario. Per Gadda, dire che ogni evento s’intreccia a ogni altro, sino a formare una maglia di innumerevoli livelli, significa dire che il soggetto umano, quale evento tra eventi, va così compreso: questi è non già il portatore di autonome decisioni e inveterati capricci, iniziatore subitaneo di catene di azioni e conseguenze, bensì parte di un complesso e (si badi) già dato intrico di eventi.
Sicché, a noi umani potrà pure sembrare che le nostre decisioni e i nostri pensieri siano protetti da indefettibile diritto d’autore, eppure questa sedicente trivialità non è che il frutto di una valutazione poco perspicace di come le cose iniziano, evolvono e finiscono.
Di tale concezione, Gadda dà dimostrazione trattando di un tema classico, vale a dire il contributo del/la singolo/a artista alla produzione della cultura, la quale ultima si pensa come l’assemblaggio delle storie singolarissime di individui capaci di innovare, creare dal nulla, dissodare e seminare senza neppure il supporto del bue e dell’aratro.
Poesia e connessioni
Ne I viaggi la morte, e più precisamente nel saggio “Le belle lettere e i contributi espressivi delle tecniche”, Gadda non solo difende le ragioni dell’operoso ruminante e del venerando arnese, ma arriva a questionare l’esistenza stessa di chi si crede artista.
Ogni campo del sapere, egli argomenta, si snoda attorno alla produzione e all’affinamento di una “tecnica”, consistente nel repertorio di lemmi e nel canone di pratiche e registri utili a segnare i confini del campo e a determinarne i contenuti peculiari.
Così, l’avvocato e la regista, la biologa e l’economista trovano davanti a loro un intero e specifico apparato di parole e significati, che “istruisce” il loro lavoro e ne permette lo svolgersi – il quale è sempre svolgimento dell’intero campo in cui costoro si trovano a operare. Queste donne e questi uomini sono, per così dire, al servizio di quel complesso reticolato di usi e istituti, che vivaddio si ritrovano in dote e che sono chiamate/i ad affinare (mentre invero alle volte mortificano) col loro operato a prima vista individuale.
Si potrà intuire lo scandalo: quando si tratta di poesia, nel cui sacro recinto chi pratica il verso tende a pensarsi pura pulsione innovatrice, che rigonfia le falde del linguaggio ordinario e lo fa esplodere in una ribalta di significati nuovi, la prospettiva di Gadda sembra una svilente riduzione dell’individuo all’incedere autonomo e impersonale della storia più cronachistica.
Ecco: non c’è tesi più lontana dagli intenti gaddiani. All’opposto, il suo è un encomio della poesia (e alfine di ogni campo) quale storia collettiva, che certo “travalica i confini della personalità”, ma non l’inghiotte. Anzi, come direbbe Alfredo Giuliani, la vivifica: nelle vene del corpo singolare pulsa tutto un tripudio di mondi, che proprio la poesia, più di altri saperi, sa cogliere come parte di un universo infinitamente connesso.
Luce e colore
Scrive Gadda: «[G]ià il soldato, prima del poeta, ha parlato della battaglia, e il marinaio del mare e del suo parto la puerpera. E questi “pratici”, vivendo lor vita, le danno pur luce e colore: quel colore che è cosa povera davanti l’eternità, ma tanto cara ai nostri occhi di poveri diavoli: quello di cui forse non ha bisogno il filosofo, ma certamente il poeta».
Questa, dunque, la virtù somma della poesia (ma anche della letteratura e della filosofia e della fisica e di chissà cos’altro): far rilevare come l’universo sia un’immensa macchina astratta, in cui ogni biografia individuale acquisisce senso alla luce di ogni storia passata, presente e futura – ragion per cui nessuna biografia individuale, neppure la più apparentemente umile e incolore, può essere ridotta a dispensabile minuzia.
Sicché, se è vero che I viaggi la morte mostra evidenti tracce di autobiografismo, in cui sembra affacciarsi un io bell’e buono, ad avviso di chi scrive questa tendenza è sempre al servizio del Gadda gomitoloso delle concause, secondo cui soggetti e oggetti non «valgono per sé, chiusi nell’involucro di una loro pelle individua, sfericamente contornati nei loro apparenti confini (Spinoza direbbe modi)», ma valgono «in un richiamo di quanto li ha preceduti e determinati».
Se, stante lo gnommero, chi legge si sente un poco soffocare, non c’è da provar biasimo: è l’effetto del consapevole ritrovarsi in questa catena d’acciaio, che la smerigliatrice della nostra individua percezione spezza, e con fatica, solo al prezzo d’impoetiche ingenuità.
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