La ribelle di Gaza è un libro di qualche anno fa di Asmaa Alghoul, giornalista e scrittrice palestinese, scritto – con non poche vicissitudini – a quattro mani con lo scrittore libanese Sélim Nassib. Nassib raccoglie le parole di Alghoul tenendosi un passo indietro, riesce in una traduzione che è traduzione di un sentire e una sensibilità comune, prima ancora che di vocabolario: «Scrivere di Gaza non mi è stato facile. Con tutte le battaglie politiche e ideologiche che si svolgono in questo territorio, produrre una storia che incontrasse l’adesione di tutti non era banale, ma almeno raccontavo la mia storia, e la mia voce non pretendeva di parlare a nome di nessun altro», queste le parole con cui la scrittrice introduce il suo memoir.

È la sua storia e la personalissima lente che aiuta a guardare e a capire una situazione complessa di una vita tormentata dai bombardamenti israeliani e dalla tirannia islamista; una storia articolata, una vicenda individuale, quotidiana che si tiene fuori dai «titoloni» e che forse può «risultare scioccante per lettori abituati al solito bla bla».

Sfogliando La ribelle di Gaza si trova una voce fresca, un candore quasi inaspettato: è il candore dell’interno, della verità, di chi non guarda con alterità ma è immerso in ciò che accade e vive con la «speranza, l’attesa del cambiamento, dell’amore e della gente con il cuore buono». Alghoul racconta la sua infanzia e il suo cammino verso la sua irripetibile – come quella di ogni essere umano che alza la testa sopra la media – emancipazione («Tipico di mio padre! Non diceva “no”, mi lasciava fare e mi sorvegliava senza farsi vedere per assicurarsi che non mi succedesse niente.

È merito suo se in me si è sviluppata quella volontà di indipendenza che mi caratterizza ancora oggi»); racconta dei ricordi di quegli anni – è nata nel campo profughi di Rafah – e di come possano, a volte, trasformare la sofferenza in felicità («Erano giorni belli. All’epoca pensavamo che la nostra non fosse un’infanzia felice, ma lo è diventata allontanandosi, ho cominciato a sentirne la mancanza»).

Storie di persone

La ribelle di Gaza è uno di quei libri che richiede sempre una sosta del pensiero, il tempo della rilettura e della lentezza: il respiro che serve alla Storia che – oggi – troppe volte dimentichiamo soffocati dall’infodemia e dalla spersonalizzazione d’ogni cosa, dalla mancanza di visione e competenza della politica a livello nazionale e internazionale: la storia è fatta di storie di persone. È un assunto banale, quanto vero e fondamentale.

Libri come quello di Alghoul questo ci ricordano: senza pietismi, vittimismi, eroismi, rifrangono i fatti attraverso la persona («Mio zio materno mi ha trasmesso un messaggio di zio Said: “Se ti fossi ostinata a restare in prigione avrebbero potuto ucciderti. Lo faranno presto se scrivi ancora qualcosa”. Ho risposto al messaggero: “Che zio Said taccia se vuole evitare che pubblichi un altro articolo su di lui”»), dimostrano come può esistere la bellezza in contesti e situazioni terribili, costruiscono la solidarietà («A Gaza la maggior pressione dà nonostante tutto l’impressione che le persone veglino sulle altre») e quella forza dirompente che vince su ogni deformazione dell’umano («Gli stranieri che vengono da noi si stupiscono nel vedere la vicinanza, la generosità della gente»).

Alghoul è rinata nelle sue parole, ha trovato un volto e un nome per il suo vero esistere nella letteratura e lo ha raccontato al mondo («Grazie alla letteratura non ero più una profuga palestinese»), come monito e promemoria, come sbocco normale di una ribelle naturale, contro la violenza israeliana, contro gli zii di Hamas.

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Quella de La ribelle di Gaza è una storia della Striscia già terribilmente vecchia. Gaza non è quella del 2016, lo sappiamo bene. Perché le guerre annientano ogni tempo. Perché il tempo di Gaza è diverso dal nostro, lo si legge anche nelle pagine di Hassan e il genocidio.

Lo sa bene Hassan, lo hanno imparato Oriani e Brancaforte che con i loro lavori e il loro impegno hanno preso una posizione: Oriani lo ha fatto scrivendo, mettendo «a fuoco il lavoro di normalizzazione, banalizzazione, neutralizzazione degli eventi abnormi che hanno insanguinato la Striscia di Gaza dopo i massacri del 7 ottobre», lo ha fatto col suo Gaza e la scorta mediatica e continua a farlo («Non so se quello di Gaza sia giuridicamente un genocidio.

So che è difficile raccontare una cosa se ci si rifiuta di darle un nome», scrive); Brancaforte lo ha fatto diventando col suo impegno la metà di una coppia resistente insieme ad Alhassan Selmi, traducendo in immagini il suo diario, il suo lavoro, le sue giornate a Gaza.

Uno sforzo titanico

Hassan da quando è nato non ha mai smesso di sopravvivere, porta avanti con uno sforzo titanico il suo mestiere di giornalista («Un cameraman, un giornalista, uno studente del Master in Comunicazioni dell’Università Al-Aqsa con qualche difficoltà a discutere la tesi perché l’esercito israeliano gli ha ammazzato i relatori e bombardato l’Università»).

I pastelli di Brancaforte e le parole di Hassan ci portano nel tempo di Gaza, nei suoi sentimenti: «Ricordo lo sgomento perché il dolore incontrava il silenzio del mondo. Piangevo per la mia gente, oppressa ed esposta a una vita sempre più dura». Il silenzio del mondo. O le parole vane, o le mancate prese di posizione, o l’inumana incapacità di dare un nome alle cose per quello che sono. O gli errori decennali, come se la storia non fosse mai accaduta, come se una parte del mondo ne avesse perso il senso.

Non c’è tregua per Gaza, neanche ora, il numero dei morti (inclusi tanti, troppi bambini) ha ricominciato a crescere.

Esiste chi tutto questo non lo accetta, esistono persone che cercano un racconto diverso di quel che accade e vorrebbero, soprattutto, non smarrire la propria umanità, fare qualcosa. Esiste chi, come Gennaro Giudetti, da sempre si muove dove c’è un bisogno.

Ettore Mo scriveva anni fa nella premessa al suo I dimenticati: «Più semplicemente lo stimolo per ogni viaggio, anche nei luoghi più remoti della terra, è stato sempre quello di andare sul posto per poter raccontare, dai bordi del ring, una vicenda che le agenzie avevano sbrigativamente segnalato con poche righe […] Non vorrei sembrare presuntuoso se ritengo che questo vagabondaggio sia stato alla fine un’immersione nelle sofferenze e nei disagi di un’umanità relegata nella periferia estrema del mondo».

Gennaro Giudetti non è un giornalista, ma un operatore umanitario e si è sempre mosso verso quella periferia estrema. Quel che fa, nella vita, lo ha raccontato in Con loro, come loro scritto con la giornalista Angela Iantosca mossa dal suo stesso animo. La comunanza di visioni su quel che accade al mondo può essere il vero e forte collante degli esseri umani: «Ho conosciuto Gennaro tramite amicizie comuni. E grazie a interessi comuni. Indignazione comune. Senso della giustizia comune e un condiviso modo di guardare agli altri come non altro da noi», scrive Iantosca.

Andare oltre sé stessi

Il libro, lo scorso anno, è uscito in doppia edizione: nella seconda c’è un capitolo in più che racconta anche l’esperienza di Giudetti a Gaza, partito per la FAO a giugno 2024 e tornato il 4 agosto («Cosa c’è di giusto in questa altalena tra le macerie che fa sorridere una bambina che ha perso tutto: madre, padre, nonni, fratelli, sorelle?»). E scrive della sopravvivenza di Gaza e dell’attesa perenne che ha respirato («Si vive di attese a Gaza: attesa di cibo che non arriva, attesa che il sibilo del drone diventi una esplosione, attesa di una notizia, attesa del silenzio e che quel silenzio finisca. Attesa della morte.

Perché a Gaza chi sino a ora è sopravvissuto è questo che sta attendendo: il quando, non il se»). A Gaza, come nelle sue altre trasferte, si è mosso per dare voce alle cose che si fa fatica ad ascoltare, per far emergere realtà lontane, per guardare oltre sé stessi, e oltre il racconto che si fa (o non si fa) delle sofferenze altrui.

«A ogni presentazione c’è una fetta di pubblico che si rimbocca le maniche e diventa parte della storia», scrive Oriani, ma vale per ogni libro che intercetti certe voci e quella umanità smarrita che non vuol perdersi del tutto, nascosta tra i lettori. C’è un messaggio in queste pagine: bisogna parlare di Gaza, come ribadisce Hassan («A casa, per strada, sul treno, al lavoro, a scuola. Ovunque. È la cosa di cui abbiamo più bisogno»). Raccontarsi, raccontare, dare voce, farsi megafono è un modo per esistere e, talvolta, per tentare di resistere all’orrore.

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