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L’assassino sapeva quello che faceva: sventrava con mano ferma ed espiantava gli organi con metodi da professionista.
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Nelle carte della polizia c’erano altri casi identici. Le vittime erano sempre donne, uccise nello stesso modo. Ma nessuno s’era accorto delle analogie perché l’autore era lo stesso, ma gli agenti che si occupavano del caso cambiavano sempre.
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«Tutti noi facciamo cose incomprensibili, prima o poi. Ecco perché ti ripeto sempre la regola d’oro». «Non fidarti di nessuno?». «Non fidarti di nessuno».
L’avevano sventrata come un pesce. Aperta con un taglio netto dall’inguine allo sterno, e poi, una volta rimossi tutti gli organi al di sotto dello stomaco, abbandonata in un bidone industriale nella discarica di Karlsfeld, come fosse un guscio vuoto. Invece era una donna, Heike Bottauer, aveva trentasette anni e lavorava come infermiera all’ospedale di Monaco.
Il commissario Sauer e il commissario Forster – «Mutti» per gli amici – arrivarono sul posto poco dopo mezzogiorno, il sole d’agosto che picchiava sulle nuche scoperte e sui cumuli di immondizia. Il cadavere era stato steso a terra su un telo di iuta, senz’altro una premura del vecchio medico legale, per il quale i defunti non cessavano di essere persone.
«Herr Müller» lo salutò Mutti. «Dovremmo smettere di vederci sempre in queste circostanze. Perché qualche volta non ci troviamo per una grigliata a casa mia, o una passeggiata al Giardino Inglese?».
Il medico legale, che stava misurando la temperatura di Heike Bottauer con un termometro da carne, voltò lentamente la testa. «Forster» disse, con tono affaticato. «Possibile che mi mandino sempre te? Non ci sono altri detective, in Ettstrasse?».
«Temo di no. Quelli capaci hanno sempre qualche impegno».
«Sì, deve essere così».
Mentre i due vecchi amici si punzecchiavano al loro solito, Sauer si chinò sul corpo per guardarlo meglio. Il ventre era coperto con un telo, a nasconderne lo scempio, e così Heike Bottauer – alta, segaligna, la carnagione pallida ma non ancora cadaverica – sembrava solo addormentata. Il viso era persino sereno, segno che di qualsiasi causa fosse morta, non se ne era accorta fino all’ultimo istante.
«Avvelenata» disse Müller al suo fianco, come leggendogli nei pensieri. «La pelle è priva di graffi o lividi, a occhio non sono presenti traumi, le unghie sono intatte. Non è stata una morte violenta».
«E cause naturali?».
«Forse» rispose il medico legale. «Un infarto, o un ictus. Non posso escluderlo senza autopsia. Ma il mio intuito dice che l’hanno uccisa. Chi l’ha sventrata sapeva quello che faceva, e perché sventrarla, in ogni caso? Hanno tolto tutto dall’utero alle costole, ma lo stomaco è ancora al suo posto».
«L’assassino non puntava a nascondere le tracce» tradusse Mutti.
Müller annuì. «Non vorrei sconfinare nel vostro campo, ma sì. A occhio e croce, l’obiettivo erano gli organi, ed è stata avvelenata per renderla inoffensiva».
La discarica
Il custode non aveva visto né sentito nulla ma, a giudicare dalla quantità di bottiglie che trovarono nel suo capanno, non avrebbe visto né sentito nulla nemmeno se fossero venuti a sventrare lui. Si chiamava Horst Rausch e lavorava nella discarica da sempre. Quando Sauer gli chiese cosa intendesse, precisamente, con «da sempre», Rausch raccontò una storia tristissima: sua madre, che non aveva mai conosciuto, l’aveva partorito e poi abbandonato proprio lì, sessant’anni prima. «Non mi avesse trovato il vecchio custode, sarei morto tra l’immondizia. E invece, alla fine, ci ho vissuto».
La sera prima aveva chiuso il cancello alle sette e mezza, poi aveva passato le due ore successive a bere e ascoltare la radio. Sauer gli chiese quale programma, per controllare in seguito, e Rausch nominò un comizio politico che veniva trasmesso da una birreria di Monaco. «Quel tizio austriaco, quello che è finito in carcere nel ’23. Be’, è di nuovo in campo, ci credete?».
Mutti rispose che in politica credeva a tutto e non credeva a nessuno, e i due si misero a discutere di pugnalate alla schiena e imperatori codardi. Intanto Sauer si guardava intorno nella modesta abitazione del custode: un tavolo, una branda, due sedie di cui una sfondata, un cucinino malmesso... La cosa più interessante era Rausch stesso: un relitto d’uomo con le mani che tremavano come foglie al vento.
«Ehi!» disse Sauer per richiamare la sua attenzione. Quando l’uomo si voltò, gli lanciò una delle mele avvizzite che aveva raccolto dal tavolo. Come c’era da aspettarsi, le mani tremanti cercarono di afferrarla, ma non ci riuscirono.
«Siggi?» chiese Mutti, con sguardo perplesso.
«Solo un controllo».
Tornati alla centrale, stesero un piano di battaglia raccogliendo in un grande foglio vuoto le informazioni in loro possesso. Il pomeriggio stesso avrebbero cercato colleghi e conoscenti della vittima; avrebbero guardato negli archivi in cerca di altri casi di sventramento; ma soprattutto avrebbero parlato con Tischmann dell’Armeria per capire con che genere di strumento fosse praticabile un taglio come quello riscontrato su Heike Bottauer. Müller aveva promesso di fargli avere qualche fotografia per tempo.
Si divisero i compiti, e passarono il pomeriggio e il mattino successivo a lavorare separatamente, ritrovandosi solo a pranzo nella succursale, come Mutti chiamava la sua birreria di fiducia a pochi passi dalla centrale. Lì, di fronte a uno stinco fumante di birra, il commissario aggiunto ragguagliò Sauer sui suoi progressi.
«Nulla» disse, la bocca piena di carne rosolata. «Gli amici, che poi sono due coinquiline di quando studiava infermeria, non la vedevano da settimane. Heike Bottauer era una donna solitaria. Sono stato a casa sua, una mansarda in affitto dietro l’Opera, e ho chiesto alla portinaia di aprirmela. Be’, non ho mai visto un appartamento così lindo e ordinato. A rovistare dappertutto ci avrò messo mezz’ora, e ho trovato solo questo». Allungò a Sauer un foglietto piegato in quattro. Un messaggio, poche righe in un’ordinata calligrafia maschile:
Grazie per la serata. Spero di replicare presto. F.
«Idee su chi sia questo F.?» disse Sauer.
«Ho risentito le amiche: sono cascate dalle nuvole».
«Forse Heike Bottauer aveva conosciuto un uomo che voleva rubarle il cuore…»
«…e alla fine le ha rubato gli organi. Ma non è nemmeno l’inizio di un indizio. Con questo non andiamo da nessuna parte».
«Anch’io all’ospedale ho scoperto poco» disse Sauer. «Una brava infermiera, sempre disponibile, sempre nei ranghi, mai una parola di troppo, mai uno screzio. La sua vita privata era un mistero per chiunque».
Dottore preferito
«Non aveva un dottore preferito? Magari un chirurgo?»
«Se ce l’aveva, nessuno l’ha notato. Ma possiamo controllare i colleghi il cui nome inizia per “F”. Me lo segno».
«E in Armeria?» chiese Mutti dopo aver trangugiato metà del suo boccale di Paulaner.
«Sì, l’Armeria» disse Sauer, che non aveva ancora attaccato il suo Brezel imburrato, solo sorseggiato un po’ di tè. «Ho parlato con Tischmann, gli ho mostrato le foto di Müller. Dice che non è difficile fare un taglio del genere con un coltello da caccia ben affilato».
«Quindi cerchiamo un cacciatore».
«Sarebbe in linea con lo sventramento. Ma secondo Tischmann anche un macellaio, o un veterinario, e naturalmente un chirurgo…»
«Hm. Troppe piste, quindi nessuna pista».
«Già. Negli archivi hai guardato?»
Mutti fece una smorfia. «Lo sai che odio rovistare tra le carte».
«Allora perché ti sei offerto volontario?»
«Perché speravo che tu trovassi la soluzione del caso prima di dovermici mettere» rispose Mutti con il suo ampio ghigno bucherellato. «Sai, Siggi? A volte sei proprio una delusione».
Erano tornati alla centrale e si erano separati da appena un’ora – spesa da Sauer al telefono con l’ospedale, in cui lavoravano solo quattro persone il cui nome iniziava per “F”, e nessuna nei reparti frequentati da Heike Bottauer – quando Mutti piombò nel loro ufficio con uno sguardo trionfante e un fascicolo in mano. «Guarda cos’ho trovato!» esclamò sventolandolo come un biglietto vincente della lotteria, poi lo allungò a Sauer. Era un caso mai risolto risalente a dieci anni prima. Klara Nagler, una giovane operaia ritrovata senza vita in una discarica alla periferia della città.
«Senza vita e senza intestino» precisò Mutti. «E indovina di che discarica parliamo?»
All’epoca si era indagato poco – era il 1917, la guerra infuriava sul fronte occidentale e il generale Hindenburg aveva richiamato alle armi tutti gli uomini in salute, dissanguando le forze di polizia – ma quel poco era sufficiente a stabilire un nesso tra le due morti: stesse modalità, stesso luogo di ritrovamento, addirittura, stando alle fotografie sbiadite, stesso bidone industriale.
Sauer e Mutti telefonarono al dottor Müller, che stava giusto eseguendo l’autopsia di Heike Bottauer: potevano andare all’Istituto e mostrargli il fascicolo Nagel, per una conferma? Mezz’ora dopo erano seduti nel suo ufficio di Sonnenstrasse mentre il medico legale, ancora bardato per l’autopsia sospesa, scorreva il referto stilato da un collega dieci anni prima. «Sì» disse infine, togliendosi gli occhiali e strofinandoli con un lembo del camice. «È la stessa mano».
«Ma può dirci di più sull’assassino? Che mestiere fa, che formazione ha ricevuto?»
Müller scosse la testa. «In realtà il taglio esterno è preciso, ma quelli interni, per rimuovere fegato, pancreas e intestini, non sono così ordinati. Difficile anche determinare lo strumento. Di certo non un bisturi».
«Quindi non un chirurgo» disse Mutti.
«Oppure un chirurgo furbo che non usa strumenti da chirurgo» lo corresse Sauer.
Müller annuì. «Però una cosa posso dirvela. Non so chi è il bastardo che ha ucciso queste due donne, ma il metodo è lo stesso, e non erano le prime. L’aveva già fatto in precedenza» concluse fissando i due commissari. «Cercate meglio e troverete altre vittime».
Cercarono meglio. Passarono due giorni a rovistare negli archivi, risalendo di anno in anno, di decennio in decennio, indietro fino ai tempi di Bismarck. Alla fine, i casi di omicidio compatibili risultarono quattro: Klara Nagler nel 1917; una sartina di nome Sonia Schwules nel 1907; una suora laica, Brigitte Motz, nel 1897; e una levatrice, Henriette Lützow, nel 1887.
«Una ogni dieci anni» disse Mutti, colpito.
«E due su quattro nella discarica di Karlsfeld» aggiunse Sauer.
Com’era possibile che nessuno si fosse mai accorto di nulla? Vero, in due casi i corpi erano stati ritrovati in città, sventrati come Heike Bottauer ma in un vicolo e sul greto dell’Isar. Gli altri due, invece, quelli rinvenuti nella discarica, riportavano solo profonde ferite al ventre, come se l’operazione non fosse stata conclusa per qualche motivo. «Poi gli agenti cambiano di continuo, e la guerra ha sparigliato tutte le carte» considerò Sauer. «Servirebbe uno schedario, per questi casi insoluti…»
«Ma un omicidio ogni dieci anni! Ogni dieci anni esatti, Siggi. Significa…»
«Aspetta» lo fermò Sauer, sollevando una mano, gli occhi persi dietro a un’intuizione. «Ogni dieci anni esatti».
«È quello che ho detto».
«Aspetta. Quanto esatti?»
«Be’… ’87, ’97, ’07, ’17, ’27… Direi esatti esatti».
Sauer si mise a rovistare nei fascicoli. «Intendo il giorno. Ecco. Guarda: Klara Nagler, 12 agosto. Sonia Schwules, 11 agosto».
Mutti sgranò gli occhi e raccolse un fascicolo a sua volta. «Brigitte Motz, 10 agosto. Qui siamo in anticipo… E questa: Henriette Lützow, ancora 11 agosto».
Sauer rimase un attimo a fissare il collega, poi voltò la testa verso l’orologio appeso alla parete.
Segnava le undici e quarantatré.
Di venerdì 12 agosto.
«Non ci credo» disse Mutti.
«Stai pensando quello che penso io?» chiese Sauer.
L’altro annuì. «Chiamo l’anagrafe».
Aspettarono il buio per infilarsi nella discarica, oliando il cancello perché non cigolasse. Il capanno del custode era l’unica fonte di luce, per quanto flebile. Stando attenti a non far scricchiolare la ghiaia sotto le scarpe, raggiunsero la piccola finestra appannata dall’umidità. Si appiattirono contro la parete, e dopo qualche istante iniziarono ad avvertire i rumori dall’interno: la radio che trasmetteva vecchie canzoni dell’era guglielmina, una sedia spostata, passi, piccoli tonfi.
Mutti fece un cenno a Sauer, che annuì e poi, con estrema cautela si sporse a guardare dentro. Rausch, il custode, beveva da una bottiglia mentre si dondolava sulle gambe posteriori della sedia.
Sauer ritrasse la testa, fece un cenno di conferma a Mutti.
Al mio tre.
Uno.
Due.
Tre.
Il sasso sfondò il vetro come un foglio di carta velina, e dall’interno della casa si udì uno schianto – la sedia che cadeva a terra – seguito da un grido – «Chi è là?»
Mutti lanciò un altro sasso contro la porta del capanno.
Sauer tornò a guardare dentro la finestra rotta, appena in tempo per notare il lampo di luce riflesso da una lama. Poi la porta si aprì e Rausch ne uscì coltello in mano, un’espressione decisa sul volto.
«Ehi!» gli gridò Mutti.
Rausch si voltò. Alla luce del capanno, le sue mani non tremavano più. Non tremavano affatto.
«Attento!» aggiunse Mutti, e lanciò verso l’uomo un ultimo sasso.
Rausch fu rapido ad allungare la mano libera e afferrarlo al volo.
La conferma che Sauer si aspettava.
«Alza le braccia. Entrambe» intimò allora, puntando la Mauser d’ordinanza.
Rausch aprì la bocca in una O di sorpresa, poi dopo un rapido calcolo lasciò cadere a terra il coltello – un coltellaccio da macellaio, lucido e affilato – e sollevò le mani. «Cosa volete da me?» chiese con voce incerta, ricordandosi infine che le sue mani dovevano tremare, per stare al copione. «Non ho fatto niente».
«Hai ucciso cinque donne» rispose Sauer, abbassando la mira sullo stomaco del custode.
«E le hai sventrate con quel coltello» aggiunse Mutti, avvicinandosi quanto bastava per raccoglierlo. «Con un po’ di fortuna, il medico legale lo collegherà ai tagli su Heike Bottauer».
Sollievo
«Vi sbagliate» disse Rausch, con un tono svogliato e un accenno di sorriso. Sembrava che non gli importasse di difendersi. Che fosse sollevato dalla piega presa dagli eventi. «Io non c’entro».
«Se è così» rispose Sauer, «riceverai le nostre scuse».
«E anche un bel regalo per il tuo compleanno» aggiunse Mutti. «12 agosto, vero? Sessant’anni tondi. Una ricorrenza da celebrare».
Aspettarono i rinforzi, lasciando che fossero altri a portare via Rausch. Loro erano così stanchi, dopo tante ore a setacciare gli archivi. Ma soprattutto scossi e straniti per quella storia. Per come l’uomo aveva agito, e ancora di più per come non aveva agito.
«Sembrava contento che l’avessimo scoperto» disse Sauer, la fronte corrugata.
«Già. E l’ultima vittima… Non l’ha chiamata lui, la polizia?» chiese Mutti.
«Magari anche le volte precedenti. Chi può saperlo».
«Ma che senso ha?»
«Forse voleva che lo fermassimo».
«E non poteva fermarsi da solo?»
Sauer si strinse nelle spalle. «Non lo so. Del resto, che senso ha tutto questo?»
Mutti scosse la testa. «Tua madre ti abbandona in una discarica il 12 agosto, e tu il 12 agosto uccidi un’altra donna nello stesso posto».
«La sventri. Come fosse un parto».
«Poi aspetti dieci anni e ne uccidi un’altra. E dieci anni dopo un’altra ancora. Che mente perversa ci vuole, per fare una cosa del genere? E perché quegli intervalli?»
Un brivido percorse il corpo di Sauer, avanti e indietro come ondate di marea. «Voleva che lo scoprissimo, eppure ha finto di tremare. Ha finto fino all’ultimo. Davvero non capisco».
«Be’» rispose Mutti. «Tutti noi facciamo cose incomprensibili, prima o poi. Ecco perché ti ripeto sempre la regola d’oro».
«Non fidarti di nessuno?»
«Non fidarti di nessuno».
Una raffica di vento si alzò nella discarica, sollevando la polvere tutto intorno a loro, e per un attimo Mutti ne fu inghiottito. Per un attimo, Sauer si ritrovò da solo.
Poi il vento ricadde, e la polvere si posò.
In lontananza, nel buio indecifrabile della sera, brillavano a migliaia le luci della città, dove una birra e un tè caldo attendevano i due amici.
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