È uscito oggi il primo episodio della seconda stagione del podcast Ellissi, prodotto da Amnesty International Italia ed Emons Record, in collaborazione con Domani. Il podcast sarà presentato questa sera a Villa Ada a Roma alle ore 18. Gianmarco Saurino, attore di film (“Maschile plurale”) e serie tv (“Doc – Nelle tue mani”, “Che Dio ci aiuti”, “La legge di Lidia Poët”), è il narratore del podcast scritto da Giuseppe Paternò Raddusa.

Saurino, questa volta non un film, ma un podcast. Come è nato questo progetto?

Insieme ad Amnesty International, con cui collaboro da anni, ci siamo chiesti quale sia il metodo migliore per raccontare le lotte per i diritti violati di persone che vivono in diverse parti del mondo. L’idea di fare un podcast nasce dalla voglia di usare un mezzo vicino ai giovani per raccontare delle cose che non sono molto cool. Credo che i diritti umani non siano una cosa che va in trend topic e utilizzare un mezzo che lo è, come i podcast, ci convinceva. Abbiamo provato a concludere ogni puntata del podcast con una buona notizia, per far capire quanto l’attivismo singolo o una semplice firma possa poi portare alla risoluzione di un caso.

Come sono state selezionate le storie?

L’idea è di raccontare storie che sono nel momento di massimo fuoco. Da un ventaglio di 10-15 storie all’inizio dell’anno facciamo una selezione delle 6 che secondo noi possono avere un taglio più efficace nel racconto. Il podcast è una modalità narrativa e come tutte ha bisogno di essere catchy. Quindi purtroppo quelle che andiamo a selezionare sono le storie, a volte più drammatiche. La cosa triste è che questo podcast può non finire mai, perché casi di diritti umani violati ce ne sono infiniti nel mondo.

C’è una storia che l’ha colpita di più in questa seconda stagione?

Ho ancora voglia di indagare sulla strage in Bhopal in India. Nel 1970 un’industria americana di pesticidi subì una perdita e uccise nell’arco di due settimane 20mila persone. Fu il più grande dramma ecologico della storia, oltre a questo c’è un elemento di razzismo che raccontiamo nell’episodio.

Ci sono anche storie legate al fenomeno migratorio

La quarta puntata della prima stagione racconta la storia delle due nuotatrici siriane che trainarono a riva il barcone su cui viaggiavano che si era fermato in mezzo al mare. Fecero uno sforzo immane per quattro ore. Quella puntata è nata dopo un evento accaduto il 3 ottobre del 2021. Mi trovavo a Lampedusa per la commemorazione della più grande strage di migranti avvenuta nel 2013. La stessa notte c’è stato uno sbarco di cento migranti e mi sono ritrovato a essere la prima persona a soccorrerli. Da lì sono nate tutta una serie di domande: Come artista a cosa servo? Qual è la mia funzione? La risposta è che forse anche questo podcast ha una sua funzione. Io che ascolto da casa mia una puntata che parla di una storia ambientata in Brasile, cosa dovrebbe fregarmene? L’obiettivo del podcast è accorciare la distanza geografica e colmare la distanza emotiva delle storie che raccontiamo.

A proposito di migranti, abbiamo un governo con una linea repressiva sul tema

Fermare l’immigrazione provando a innalzare dei muri o con dei decreti legge, mi sembra una follia. È come tirare su l’acqua dal mare con un secchiello. La narrazione che si è fatta negli ultimi anni è molto pericolosa. Abbiamo sempre bisogno di raccontarci che c’è un nemico. Questo è quello che temo più di tutto. Continuare a usare la paura come campagna elettorale è pericoloso e porta a casi di violenza, come sono successi in questo paese. Non credo che ci sia una soluzione politica. Se imparassimo che dietro a quei numeri ci sono storie, famiglie, un movente avremo un’empatia più calda e l’approccio al fenomeno migratorio cambierebbe.

Se dovesse raccontare lo stato dei diritti umani in Italia, come lo descriverebbe?

Credo che sia un momentaccio. In questi giorni è in uscita un mio film che si chiama “Maschile plurale”, una commedia romantica a tema Lgbtq+ e confrontandomi con chi sta all’interno della comunità ci sono tante paure rispetto ai diritti civili. Da cittadino mi preoccupa molto e anche la gestione del fenomeno migratorio. Il governo ha deciso di aprire dei posti dove spedire la gente in Albania sperperando denaro pubblico, invece di reinvestirlo nell’accoglienza e nell’integrazione lavorativa di chi arriva qui.

Da dove nasce il suo attivismo?

Credo che un artista debba avere un’identità politica. Intendo nella migliore accezione del termine, senza bandiere o colori. Il mio avvicinarmi ad Amnesty nasce con il teatro quando portavo in scena un monologo tratto da uno scritto di Victor Hugo che si chiamava: “Ultimo giorno di un condannato a morte”. All’interno ci ho messo il tema della condanna a morte e delle carceri. Da lì è nata una collaborazione con Amnesty per cercare di unire la mia voglia di fare teatro con i temi dei diritti umani.

Non è che sotto sotto voleva fare il giornalista?

È quello che volevo fare (ride ndr.). Ho passato due fasi: la prima da giornalista quando ho iniziato a lavorare per un quotidiano locale, ma la mia esperienza non è stata molto positiva. Mi mandarono a fare un’intervista a una gioielleria appena rapinata e sono stato un’ora e mezza ad aspettare che la titolare smettesse di piangere. Mi sono chiesto cosa stessi facendo, chiedere a una signora in lacrime come è andata la rapina mi sembrava una cosa ridicola. Tornai in redazione e dissi al direttore che non avevo il pezzo e avrei chiamato la signora il giorno dopo. Mi rispose: «È successo oggi e dobbiamo raccontarlo, devi tornare là». Tornai lì e la signora mi disse: «Guarda non è il momento». E per me «non è il momento» era la risposta più giusta di tutte. Una volta in redazione mi sono preso una lavata di capo totale. Decisi che il giornalista non era il mestiere per me. Poi ho avuto la fase della fotografia di cui sono sempre stato appassionato. Sono cresciuto leggendo Tiziano Terzani, il suo modo di fare giornalismo è stato un’ispirazione e sognavo di fare quello.

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