Giardino e paesaggio sembrano avere molte cose in comune. L’amore per il giardino e quello per il paesaggio vanno solitamente di pari passo.

Gli architetti paesaggisti probabilmente progettano più di frequente giardini che sistemazioni paesaggistiche; alcuni corsi di studio in architettura si intitolano “Architettura del paesaggio e del giardino”; l’editore Olschki pubblica una collana “Giardini e paesaggio”. Anche dal punto di vista concettuale giardino e paesaggio paiono strettamente congiunti. Il pionieristico trattato Il paesaggio e l’estetica del filosofo Rosario Assunto, pubblicato nel 1973 quando nessuno parlava di paesaggio, non solo dedica gli ultimi tre capitoli proprio al giardino, ma sostiene che paesaggio e giardino vanno indagati con le medesime categorie, dato che il giardino incarna la perfezione del paesaggio. La natura è la più perfetta giardiniera e ogni paesaggio è potenzialmente un giardino. Il giardino è il «paesaggio assoluto».

Eppure è sufficiente riflettere sul fatto che molte società (per esempio quelle antiche) hanno avuto una raffinata cultura del giardino, senza per questo elaborare una sensibilità paesaggistica, senza possedere una parola per indicare il paesaggio e senza sviluppare una vera e propria pittura di paesaggio, per indurci a pensare che tra giardino e paesaggio deve esserci una differenza. Le culture autenticamente paesaggistiche sembrano rare (la Cina antica, l’Europa moderna), mentre è difficile immaginare una società senza giardini.

Solo che questa differenza non può consistere nel dire che il giardino è artificiale, mentre il paesaggio è naturale. Ad accontentarsi di questa spiegazione possono essere solo i teorici angloamericani, che identificano il paesaggio con la wilderness, con la natura selvaggia, come fa per esempio David E. Cooper nella sua Filosofia dei giardini.

Noi europei, invece, pensiamo sempre il paesaggio come frutto della interazione tra uomo e natura, tra natura e cultura. Basta pensare al caso del paesaggio agrario, ossia di quel paesaggio che è frutto, almeno in larga parte, del lavoro di coltivazione, per capire che non si può distinguere giardino e paesaggio sulla base del fatto che il primo richiede un intervento diretto dell’uomo sulla natura, il secondo no. Se si vuole distinguere giardino e paesaggio bisogna basarsi su altri argomenti.

L’etimologia

Una prima, forte ragione a favore della differenziazione dei due concetti di giardino e paesaggio ce la dà l’etimologia. In quasi tutte le lingue europee moderne, i termini che indicano il giardino derivano da radici indoeuropee che hanno a che fare con l’idea di recingere, chiudere, contornare un terreno. Lo stesso significato che sta alla base del termine antico-persiano per indicare il giardino, pairidaeza (recinto), da cui deriva la parola paradiso che usiamo per indicare il giardino per antonomasia, l’Eden.

Ecco dunque una prima, fondamentale differenza tra giardino e paesaggio: il paesaggio è spazio aperto, il giardino è spazio tendenzialmente chiuso o almeno delimitato, ragione per cui il paesaggio si dà in ampie dimensioni, il giardino in dimensioni per lo più limitate.

È vero che di recente Gilles Clément (che non per nulla non si definisce paesaggista, ma “giardiniere”) ha detto che il paesaggio può presentarsi nell’immenso o nel minuscolo; ma questa sembra più una boutade che una considerazione ragionata: un paesaggio in miniatura non è un paesaggio, mentre esistono giardini in miniatura. Il giardino può essere – e spesso è – un microcosmo, un piccolo mondo compiuto, mentre il paesaggio è tale solo se lo proiettiamo su una idea di totalità e di infinità. Infatti il paesaggio è sì delimitato, ma solo da una nostra attitudine mentale, che non può operare la limitazione che sullo sfondo dell’illimitato.

Proprietà

Potremmo anche dire che il paesaggio costitutivamente non è proprietà di nessuno, nel senso che è di tutti e tutti ne possono godere, laddove il giardino, almeno relativamente alla sua origine, è sempre di qualcuno, anche se questo qualcuno, nelle nostre società, è spesso una amministrazione pubblica.

Come scriveva Emerson, il filosofo ispiratore del Walden ovvero vita nei boschi, di Henry David Thoreau: «I Miller posseggono questi campi, i Locke quelli, e i Manning il bosco alle loro spalle.

Ma nessuno di loro possiede il paesaggio. C’è una proprietà, all’orizzonte, che nessun’altra persona può possedere, se non quella il cui sguardo è capace di integrare tutte le parti, vale a dire il poeta». Il paesaggio è tale proprio perché è inappropriabile, non può essere sottomesso a rapporti proprietari; e quando questo avviene, sia pure nella forma-limite del patrimonio pubblico o addirittura del «patrimonio dell’umanità», assistiamo pur sempre a un transito dall’ambito estetico a quello economico-amministrativo.

Naturale e artificiale

Tuttavia ci sono molte altre differenze. Intanto, mentre il paesaggio presenta elementi naturali ed elementi artificiali (in casi limitati solo naturali) e quindi nel paesaggio l’artificiale si aggiunge al naturale, nel giardino anche gli elementi naturali sono frutto dell’intervento umano, e quindi artificiali.

Il paesaggio, poi, non è mai frutto di una pianificazione completa; nel complesso è casuale e non progettato. Il giardino, invece, viene pianificato ed è frutto di un progetto: è caratterizzato dalla intenzionalità. Non solo un paesaggio non ha mai un autore, diversamente dal giardino, ma coloro i quali hanno plasmato col loro lavoro un territorio non lo hanno fatto mai per costruire un paesaggio. Semplicemente, hanno lavorato, coltivato, costruito, piantato alberi, e il risultato sorprendente è che in moltissimi casi, soprattutto nel passato, questo lavorare non solo senza presupporsi un risultato estetico, ma senza coordinarsi esplicitamente con gli altri attori nel paesaggio ha prodotto risultati di straordinaria bellezza.

Punti di vista

Un paesaggio, solitamente, è percepibile da molti punti di vista. Tendenzialmente moltiplicabili, per sé stessi non pianificati. Anche se, certamente, si possono dare punti di vista privilegiati, belvederi etc., in linea di principio posso sempre scegliere dove collocarmi per osservare un paesaggio reale. Nel giardino, invece, i punti di vista sono limitati e tendenzialmente preordinati. Un paesaggio può essere concepito inconsapevolmente, da chi semplicemente lo vive o lo attraversa; un giardino, normalmente, viene fruito consapevolmente, anche da chi vi si trova per caso.

Un modello per il paesaggio?

Ribadire la diversità tra giardino e paesaggio, tuttavia, non significa negare che il giardino abbia un influsso importante sulla nostra percezione del paesaggio, da un lato, e dall’altro sia espressione di una determinata idea di esso. Il giardino inglese, nel Settecento, è stato espressione di un modo nuovo di intendere il paesaggio e ha contribuito a formare una nuova sensibilità. Quel che interessa è capire che cosa il giardino può insegnarci in materia paesaggistica. Quale idea di paesaggio esprime oggi il giardino?

Si possono dare due risposte, la prima assai diffusa ma a mio parere criticabile, la seconda meno frequente ma assai più condivisibile. La prima risposta è quella che vede nel giardino l’ideale del paesaggio, cioè lo stato al quale tutto il paesaggio dovrebbe aspirare. In questo orientamento il giardino diventa modello del paesaggio nel senso che tutti i paesaggi dovrebbero tendere alla condizione di giardini. La seconda risposta individua nel giardino un contrappeso alla prevalente predilezione per la natura selvaggia anziché per quella coltivata. In questo secondo orientamento il giardino ci insegna ad amare non solo la natura selvatica ma anche la natura lavorata dall’uomo.

Il modello della natura come giardino deve contribuire ad una “umanizzazione” della natura. Si tratta del progetto utopico di un «ordinamento estetico della Terra». Ma l’ideale della corrispondenza armonica tra uomo e natura può essere solo un ideale parziale: se viene assolutizzato, porta a una «sterilizzazione del bello naturale». Non si può sostenere che, dato che quasi tutti i paesaggi portano il segno dell’uomo, tanto vale trasformarli in giardini: al contrario, ciò rende tanto più necessario lasciare che la natura sia natura dove può esserlo.

I giardini sono luoghi rassicuranti, benigni, amici dell’uomo; ma bisogna pur dire che la natura non è sempre così, anzi non lo è quasi mai. Contro una visione idilliaca della natura ridotta a giardino può valere il sarcasmo di chi ha osservato che un giardino è una rappresentazione fedele del paesaggio naturale non più di quanto un acquario lo sia dell’oceano. Il giardino può essere un notevole antidoto alla predilezione indiscriminata della natura selvaggia.

A partire dal Settecento, nella nostra cultura ha preso sempre più vigore l’idea che la natura esteticamente attraente sia la natura non toccata dall’uomo. La bellezza è stata vista come legata in misura crescente al territorio non antropizzato. Poteva essere bella solo la natura incontaminata, l’alta montagna, il mare aperto, il deserto, insomma i luoghi inospitali e disabitati.

Ecco: la prossimità di giardinaggio e agricoltura può aiutare a comprendere che anche un terreno organizzato e segnato dal lavoro può contenere elementi di bellezza. Nel giardinaggio, scriveva sempre Assunto (e questa volta non possiamo non concordare con lui) l’utilità della coltivazione della terra da parte dell’uomo viene esibita per la contemplazione della sua forma, il che equivale a dire, come osservava Giulio Carlo Argan, che «il giardino rappresenta il maximum qualitativo o di valore estetico cui può dar luogo la pratica delle colture agricole». Dal giardino allora, possiamo imparare ad apprezzare meglio il paesaggio che è più diffuso e più caratteristico dell’Italia e dell’Europa in genere: il paesaggio coltivato e plasmato dall’uomo.


Questo articolo è un estratto dal primo capitolo del libro di Paolo D’Angelo: Il paesaggio. Teorie, storie, luoghi, edito da Laterza e pubblicato a ottobre 2021.

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