La parte “psicotica” della produzione del Signor G dialoga con le nuove generazioni, che indossano maschere e inventano espedienti retorici per stare alla larga dal dubbio divorante dell’insensatezza
- In questi lunghi mesi in cui siamo rimasti chiusi in casa a mollo in noia, paure e malesseri, le investigazioni di Gaber si offrono a noi come una colonna sonora preziosa, piena di chiavi di ri-lettura.
- In tutto il suo lavoro Gaber ha riconosciuto e dato dignità all’esistenza di un nucleo di dolore comune a tutti, lavorando molto su quella soglia con la quale ci illudiamo di tenere separate normalità e follia.
Nella normalità si annidano molteplici focolai di pazzia, come viene pittoricamente reso dal brano Dall’altra parte del cancello, in cui la linea di confine tra i due gruppi umani è porosa, disseminata di passaggi, e infine illusoria.
Sono cresciuto alla periferia di Milano ma nessuno della mia famiglia era milanese. Nessuno tranne mio nonno paterno, Pierluigi detto Pier, il nonno che ho avuto fino al 1999, l’anno in cui è morto a causa delle tante patologie che non ha mai ritenuto essere un motivo sufficiente per addomesticare il suo stile di vita. Frutto di un matrimonio combinato tra una ragazza romana e un uomo del Nord (di cui si persero in fretta le tracce), mio nonno è sempre rimasto avvinghiato alla cultura milanese della sua giovinezza. Le circostanze l’avevano portato a lavorare alle Poste di un quartiere dormitorio dell’hinterland, ma io lo ricordo soprattutto per i mille interessi che accendevano i suoi occhi e la sua immaginazione: il nuoto (era istruttore in una piscina comunale), i viaggi in Grecia e Nordafrica, e poi la tradizione milanese di attori, comici, cantautori – da Paolo Rossi a Jannacci, passando per el Tognella e I Legnanesi – che aveva conosciuto frequentando, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, i locali storici e i piccoli teatri della città.
Tra tutti i suoi amori musicali spiccava Giorgio Gaber, il Signor G, autore che io ho solo sfiorato, nel corso degli anni, attraverso i dischi e i memorabilia che mio nonno custodiva nel trilocale all’ottavo piano di via Dalie a Rozzano.
Un altro Gaber
All’inizio del Duemila ho conosciuto in presa diretta il Gaber dell’ultima fase, quella de La mia generazione ha perso, ovvero della disillusione politica, in seguito usata, strumentalizzata da questa o quella fazione, nel furore demagogico. Ignoravo quasi del tutto però l’esistenza di un altro Gaber, di tutto un altro affascinante volto di questo talento performativo e letterario del secondo Novecento, che ha fatto della perturbazione dello status quo e dello smarcamento da ogni fissità identitaria la sua cifra stilistica ed esistenziale.
La riscoperta è arrivata di recente, grazie a un carpiato generazionale: Lorenzo Luporini, giovane nipote dell’inventore del teatro-canzone, qualche settimana fa mi ha contattato per propormi un’intervista all’interno di uno dei cicli di incontri che lui, con la Fondazione Gaber, organizza per diffondere, soprattutto tra le nuove generazioni, il lavoro del nonno.
Lorenzo, classe 1995, aveva da poco letto il mio romanzo d’esordio, venendo a conoscenza della passione che mio nonno nutriva per il suo. In preparazione al nostro incontro (la cui registrazione si trova su YouTube) ho colto l’occasione per riavvicinarmi alla produzione gaberiana: ho recuperato tutto il materiale disponibile in rete, fino a imbattermi nel lavoro degli anni Settanta, in particolare in Far finta di essere sani, lo spettacolo, poi diventato disco nel 1973, interamente dedicato all’investigazione della vita psichica contemporanea e delle sue derive. Un concept album lucidissimo e poetico, ricco di momenti esilaranti ma anche struggenti.
Normalità e follia
Influenzata dalla lettura de L’io diviso (1969) dello psichiatra scozzese Ronald Leing, considerato uno dei principali rappresentanti del movimento antipsichiatrico, che affermava «Che un gran numero di “guarigioni” di psicotici consiste semplicemente nel fatto che il paziente, per un motivo o per l’altro, ha deciso di ricominciare a fare finta di essere sano», la produzione di Gaber di quegli anni si muove su piani anticipatori, perfettamente sovrapponibili alle forze in campo oggi, nelle nostre vite di animali digitali. In questi lunghi mesi in cui siamo rimasti chiusi in casa a mollo in noia, paure e malesseri, senza l’ausilio delle distrazioni e dei diversivi che il mondo di prima ci offriva, le investigazioni di Gaber si offrono a noi come una colonna sonora – e sapienziale – preziosa, piena di chiavi di ri-lettura.
In tutto il suo lavoro Gaber, insieme a Sandro Luporini, suo storico co-autore, ha infatti riconosciuto e dato dignità all’esistenza di un nucleo di dolore comune a tutti, lavorando molto su quella soglia – fintamente nitida – con la quale ci illudiamo di tenere separate normalità e follia, opponendo mondo dei sani, degli integri, e mondo delle menti in rovina. Nella normalità si annidano molteplici focolai di pazzia, come viene pittoricamente reso dal brano Dall’altra parte del cancello, in cui la linea di confine tra i due gruppi umani è porosa, disseminata di passaggi, e infine illusoria. Un’intuizione questa che si manifestò anche in azioni concrete, e di rottura, come quella di offrire lo spettacolo ai cinquecento pazienti dell’allora manicomio di Voghera, proprio con l’intento di «Sfondare il muro che divide i sani dai matti», come recitavano i titoli dei giornali dell’epoca.
Far finta di essere sani è un progetto denso e insieme lieve, innervato di suggestioni tratte dalla produzione di Pessoa, Céline e soprattutto, come dicevamo, dagli psicanalisti dell’antipsichiatria, i quali spiegavano il disagio psichico più con la pressione esterna che con una supposta “falla originaria” nella persona. Il sottolineare che in ogni individuo, al fianco della ragione, è presente un principio di follia, rende il Gaber di questa fase molto vicino, negli ideali e nei valori, al pioniere del movimento antipsichiatrico italiano: Franco Basaglia.
Nel brano che dà il titolo allo spettacolo il tema si carica di tragica ironia: «Per ora rimando il suicidio e faccio un gruppo di studio, le masse, la lotta di classe, i testi gramsciani, far finta di essere sani». Fingiamo di essere sani avvalendoci di maschere, soluzioni retoriche o materiali a cui chiediamo di tenerci il più possibile alla larga dal dubbio divorante dell’insensatezza. Siamo immersi in una dissimulazione accurata, che viene rinforzata dalle relazioni: il disagio, il perturbante non c’è, non ci deve essere. La spontaneità proibita nella fiera dell’autorappresentazione permea Cerco un gesto, un gesto naturale: «Mi guardo dal di fuori come fossimo due persone, osservo la mia mano che si muove, la sua decisione, da fuori vedo chiaro, quel gesto non è vero, e sento che in quel movimento io non c'ero». Quel che accade quando la dissimulazione non basta più, esplode invece ne L’elastico, resoconto vivido e struggente di una crisi psicotica, ma estendibile in realtà al tentativo universale di reggere l’urto della realtà. «Non tiene più l’elastico», recita ossessivamente Gaber, in un crescendo che trasmette tutta l’angoscia di frammentazione del picco psicopatologico.
La tassonomia dei deficit del sentire continua in brani come L’impotenza o nella più leggera Pressione bassa, che sonda il tema dell’inedia, della disaffezione nei confronti della realtà, all’interno del comune meccanismo di negazione del malessere, della minaccia interiore. La bellissima Un’emozione è invece dedicata all’anestesia precauzionale che inibisce la libera circolazione dei sentimenti: «Un'emozione non so che cosa sia, ma ho imparato che va buttata via, dolce prudenza ti prego resta ancora con me, da troppo tempo non soffro grazie a te».
La diagnostica gaberiana prosegue in pezzi come Il narciso: «Mi incammino verso il letto e penso a dopo, perché io con una donna mi scopo», o Il pelo, un breve monologo incentrato sull’invidia, che funziona benissimo anche per la spirale ansiogena tipica dell’insoddisfazione instillata oggi dai social, nei quali le vite degli altri che scorrono nei nostri feed si sommano proponendoci obiettivi sempre più alti e complessi. Una competizione identitaria senza misura, potenzialmente infinita, che subiamo spesso senza neppure renderci conto degli effetti che ha sull’autostima e sulla nostra capacità di progettarci.
Rinascimento gaberiano
Se buona parte dei media sembrano aver dimenticato l’importanza del lavoro di Gaber, stupisce positivamente trovarlo invece tra le influenze di alcuni nuovi talenti dello scenario musicale, soprattutto urban. La centralità di Gaber come fonte di ispirazione viene esplicitamente sottolineata da Madame, che lo cita e lo inserisce nelle playlist condivise coi fan, così come da Ghali (che ha inserito un verso di Destra-sinistra nella sua Cara Italia) e da Margherita Vicario, la cui carriera è iniziata con un approccio molto vicino al teatro-canzone. Eredità che affiorano e non solo in ambito musicale: Francesco Centorame, venticinquenne attore di Skam Italia, proprio in un’intervista con Lorenzo Luporini ha raccontato di aver trovato in Gaber, oltre un modello per la recitazione, anche un conforto diretto, «un compagno», nel corso dei vissuti depressivi sperimentati durante l’adolescenza.
Tutti questi esempi del lascito del Signor G tra i giovanissimi fanno ben sperare che si possa assistere presto a un vero rinascimento gaberiano, a una rimessa in circolo dell’opera di questo maestro dell’ironia perturbante, che non smette di parlarci attraverso i decenni. Un talento dall’ironia – più tenera, fraterna, che cinica – in grado di illuminare le faglie della nostra vita emotiva, spingendoci a maneggiarle con la cura di un’introspezione finalmente libera dalla retorica con cui media e luoghi comuni tendono ancora oggi a fraintenderle e tradirle, inibendo la spregiudicata passione che meritano.
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