- Dall’inizio della pandemia abbiamo assistito, in Italia e all’estero, al moltiplicarsi di analogie banalizzanti tra la Shoah e il nostro presente. Merita però interrogarsi sul significato di quelle tentazioni analogiche.
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Quando è cosa viva, la memoria si nutre di analogie, di metafore e di allegorie, di accostamenti spesso azzardati, di connessioni multidirezionali e di ibridazioni della più diversa specie.
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Evocare la persecuzione degli ebrei è oggi forse il modo più semplice ed efficace per alludere a una condizione di oppressione. Quando si stimola l’inconscio collettivo con temi sovraccarichi di potenza emotiva, gli esiti sono imprevedibili.
Dall’inizio della pandemia abbiamo assistito, in Italia e all’estero, al moltiplicarsi di analogie banalizzanti tra la Shoah e il nostro presente: manifestanti No-vax che sfilano con la stella gialla sugli abiti o indossando finte divise da deportati, intellettuali che non resistono alla tentazione di vedere nel nostro inquietante presente l’inveramento delle loro teorie, e così descrivono il green pass come una «stella gialla virtuale».
Per usare le parole del grande storico Marc Bloch, questi usi metaforici del passato costituiscono «crimini di lesa esperienza e di lesa storia».
Merita però interrogarsi sul significato di quelle tentazioni analogiche. Perché oggi, in contesti diversi e lontani, molti evocano nazismo e Shoah per esprimere il proprio disagio di fronte alle politiche di gestione della pandemia? Come è possibile che le stesse trite metafore siano condivise da esponenti della cultura alta e dai manifestanti più sprovveduti? E come mai quelle analogie attecchiscono in maniera trasversale tanto a destra quanto a sinistra?
Ragionare su questo punto credo sia utile non solo per capire come una parte della società e della cultura abbiano reagito alla diffusione del Covid-19, ma anche per capire come funziona la memoria, cioè per mettere a fuoco attraverso quali meccanismi essa opera e si sviluppa, a quali bisogni, individuali e collettivi, risponde.
Piegare il passato
Indagare il funzionamento delle memorie significa addentrarsi nella casa degli specchi dove esse dimorano, misurandosi dunque con rifrazioni e distorsioni prospettiche. Infatti, quando è cosa viva, la memoria si nutre di analogie, di metafore e di allegorie, di accostamenti spesso azzardati, di connessioni multidirezionali e di ibridazioni della più diversa specie.
Questo avviene non solo, e non tanto, perché ci siano (e ci sono) soggetti dediti a forme di ghignante dissacrazione che puntano a degradare e corrompere il riferimento a quella specifica esperienza storica, quanto perché la memoria fisiologicamente abita nel territorio che collega il presente al passato.
Cos’è del resto la solenne invocazione “mai più” se non un modo per rendere operativo oggi il riferimento alle politiche di sterminio, facendone stella polare di orizzonte morale? Ecco che allora quel passato può esser piegato, ed è stato piegato, ai più diversi usi, talvolta con le migliori intenzioni, anche se sovente operando evidenti forzature sul piano storico.
Un breve, e non esauriente catalogo, può forse aiutarci a mettere a fuoco i tanti volti assunti da quella memoria nel tempo: nel suo noto libro La mistica della femminilità (1963) la femminista americana Betty Friedan definiva la famiglia borghese come «un comodo campo di concentramento».
Pochi anni dopo, su vari organi della stampa anglosassone, si fece ricorso alla formula «l’olocausto del Biafra» per descrivere la carestia che colpisce il paese, associazione forse innescata dalla circolazione di foto che ritraevano corpi inscheletriti che potevano ricordare quelli dei sopravvissuti ai campi della morte.
Nel 1967, dopo la guerra dei sei giorni, il segretario del Pcus Breznev suggerì che gli israeliani facevano ai palestinesi ciò che i nazisti avevano fatto a loro, un’immagine perturbante perché comporta il rovesciamento del rapporto vittime.
Venendo a tempi più recenti, con la fine della guerra fredda, specie in ambito statunitense ma non solo, sono state ripetute le evocazioni della Shoah per giustificare l’azione sullo scacchiere geopolitico globale: il gruppo Jews against genocide provò a mobilitare l’opinione pubblica americana di fronte alla guerra in Bosnia suggerendo che lì la violenza raffigurata in Shindler’s List stava accadendo di nuovo; Elie Wiesel, con la sua autorevolezza di sopravvissuto e testimone, elogiò il bombardamento della Serbia da parte dell’amministrazione Clinton proprio paragonando la Shoah al potenziale genocidio dei kosovari.
Sempre negli Usa, nel rivendicare il riconoscimento di una condizione di sofferenza, si è fatto ampio ricorso, per una fase, all’analogia tra la Shoah e l’Aids. L’elenco potrebbe proseguire a lungo.
Una connessione tra politiche sanitarie e oppressione di stampo nazista era già circolante e operativa nell’immaginario collettivo ben prima della pandemia. In Italia nel 2018, in reazione alle iniziative della ministra della Salute Beatrice Lorenzin per rafforzare l’obbligo vaccinale, si moltiplicarono fotomontaggi e caricature che la ritraevano in uniforme nazista.
Nella primavera del 2019, a Brooklyn, un gruppo di ebrei ultraortodossi contestò le politiche di vaccinazione obbligatoria contro il morbillo paragonandole alla Shoah.
Teatro del male
Col Covid tutto questo è solo detonato in forme più prorompenti. Tuttavia non sempre il labile nesso simbolico Covid-Shoah è servito a una retorica No-vax.
Nella prima fase della pandemia, quando la risposta istituzionale furono i lockdown, a rinforzo e a sostegno di quelle scelte ci fu chi, per nobilitare e nel contempo sminuire il nostro disagio, pensò di paragonare le nostre sorti a quelle di Anna Frank, chiusa nell’appartamento segreto ad Amsterdam. Curiosamente quell’immagine affiora in modo indipendente in contesti lontanissimi: dal Times of India alla rivista ebraica newyorkese The Forward, sino a una vignetta della fumettista Elena Triolo.
Quelle rappresentazioni prospettano un “teatro del Male”, uno spettacolo che lungi dal costringere a misurarsi con la complessità, offre ben più immediate gratificazioni, consentendo di immergersi nel passato per vivere l’emozione di sentirsi dalla parte giusta della storia. Alla base c’è un irrefrenabile impulso ad approssimarsi all’orrore presentato come pietra angolare della nostra moralità.
Non può sorprendere che, dopo decenni di investimenti su quella memoria, essa sia diventata patrimonio comune: offre un insieme di immagini, di parole chiave, di metonimie che non solo sono pronte all’uso ma che suscitano forti reazioni.
Evocare la persecuzione degli ebrei è oggi forse il modo più semplice ed efficace per alludere a una condizione di oppressione. È proprio la pervasiva presenza di quella memoria nel nostro immaginario che rende forse inevitabile il fatto che essa sia manipolata, financo stravolta e violata, per i più diversi scopi.
Giusto denunciare gli abusi e le falsificazioni, ma senza perdere di vista che una memoria viva non può esser messa sotto teca, e che difficilmente sdegno e condanne spegneranno le provocazioni; anzi, è plausibile che le alimentino perché confermano che esse colpiscono nel segno. Quando si stimola l’inconscio collettivo con temi sovraccarichi di potenza emotiva, quale è la Shoah, gli esiti sono imprevedibili.
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