Giovanni Lindo Ferretti, padre del punk italiano e voce dei CCCP, è tornato in scena al Teatro Olimpico di Vicenza per la prima volta dopo i concerti estivi sui palchi di tutta Italia che hanno visto la band riunita. Nel suo Moltitudine in cadenza, percuotendo, l’autore ha cantato di poeti e pensatori di ogni parte del mondo
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Finzioni, disponibile sulla app di Domani e in edicola
In uno dei teatri più sconvolgenti del pianeta Terra, cantato da poeti e pensatori di ogni parte del mondo, cioè il Teatro Olimpico di Vicenza progettato dal Palladio alla fine del ‘500, Giovanni Lindo Ferretti è tornato in scena per la prima volta dopo il bagno di folle della straordinaria estate dei CCCP riuniti sui palchi di tutta la nazione.
«Essere non essere, comparire scomparire, anime animali», così Ferretti, accompagnato in senso profondo e materico dal percussionista Simone Beneventi e dalla presenza shakespeariana del teschio del suo amato cavallo Tancredi, ha chiuso il 77° ciclo dei Classici, con la direzione artistica di Ermanna Montanari e Marco Martinelli del Teatro delle Albe, affondandosi vivo nella sua storia, tra memoria e incanto, spaventi e respiri.
“Moltitudine in cadenza, percuotendo” è il nome di ciò che va in scena, narrazione in forma di autocoscienza dalla parola al suono che percuote la vita: metalli, legni, strumenti costruiti artigianalmente con maestria e sapienza. Un viaggio viscerale, antico e nuovo, a ritroso e in prospettiva che l’autore ancora non sa se replicherà.
Vorrei partire dall’estremo ultimo del titolo, che ultimo ovviamente non è. “Percuotendo”, cioè con Simone Beneventi alle percussioni, che dire percussioni pare riduttivo, visto il lavoro accurato di decostruzione e poi nuova costruzione del suono. La musica, allora.
Ho detto di sì all'Olimpico pensando immediatamente che lo avrei fatto con Simone, che ci sarebbe stato questo "percuotendo", perché Simone è un percussore, però io non immaginavo che il testo poi venisse percosso da così tanta musicalità. E invece lui ha pensato di costruire questa sorta di xilofono a cui ha aggiunto i pedali come se fosse un organo ed è cominciato a fiorire un mondo. Devi sapere che una delle ultime cose che ho visto prima di cominciare a fare il cantante dei CCCP, perché prima vedevo tutti i concerti e sono stato un adolescente consumista dal punto di vista musicale dunque consumavo volentierissimo, ecco, l'ultima cosa che ho visto, insieme a Zamboni, e che ci era piaciuta moltissimo, è stata Nico in tour solo voce, harmonium e sigarette.
Cioè lei non faceva altro che fumare tra questi suoni e quando ho scoperto che Simone mi avrebbe dato anche i suoni dell'harmonium, ne sono rimasto estasiato.
Come avete scelto i brani da inserire?
Simone si è messo a lavorare sulle canzoni, tra l'altro facendo alcune scelte che mi sono piaciute moltissimo.
È il fortuito della vita vissuta, cioè capitano le cose, possono capitare e sono capitate. Ci siamo detti quali canzoni ci sarebbe piaciuto fare ma poi ci siamo mossi nell'ascolto e in assoluta libertà perché io costruisco la struttura delle parole mentre lui aveva dei desideri sonori, poi c'era qualche canzone che non era possibile infilare, ma il motivo per cui io ho accettato con tranquillità di fare l'Olimpico quando Ermanna Montanari me l'ha chiesto, è che avrei lavorato con Simone. L'unica cosa di cui avevo bisogno per stare sul palco con un atteggiamento nuovo erano le percussioni, perché è l'unica cosa con cui io non avevo mai lavorato. Io ho fatto comunque delle serate, dei concerti, con tromba, trombone, zampogne, strumenti tradizionali ma una cosa così, di puro percuotendo, no.
Tutto quello che tu fai con la parola, anche a livello sonoro, lui lo fa facendo parlare gli strumenti, in alcuni casi costruiti appositamente.
Sì, a lui piaceva l'idea di lavorare con uno che gestisce le parole, io volevo lavorare con qualcuno che gestisse i suoni percutendoli, quindi è stato molto naturale, perché non avevamo neanche tanto tempo e quindi non poteva che essere naturale.
È stato un lavoro preparato interamente dopo la tournèe della reunion dei CCCP?
Di fatto abbiamo cominciato alla fine, sì, a settembre. E poi ci siamo trovati al Cerreto da me, lui è arrivato una mattina con la sua macchina piena di robe che abbiamo messo in casa, perché pioveva, c'era umido, abbiamo fatto uno spazio perché lui ha bisogno di spazio. Poi abbiamo messo su un piccolissimo impianto, un microfono.
Lui è entrato dentro questo testo e io ho cominciato a sistemare le canzoni che lui aveva preparato per me, quelle che aveva ipotizzato potessimo eseguire, più della metà erano necessarie al testo. È stato facile, abbiamo fatto due prove in casa, e alla seconda prova abbiamo chiamato un po’ di pubblico del Cerreto e percepito che anche in chi ascoltava cresceva una tensione, cioè vedevi sulla loro faccia che era una piacevole sorpresa per loro, quindi ci siamo sentiti in gran sintonia.
In questo lavoro, in un luogo come l’Olimpico anche il fonico, Mauro De Pietri, ha un ruolo cruciale.
Certo! Io me lo sono allevato piano piano Mauro, infatti a una cosa come questa può lavorarci solo uno che ti conosce e sa dove vai. Tra l'altro lui, al contrario di un sacco di fonici, si è abituato ad amplificarmi in contesti non ovvi, io con Mauro ho fatto tante chiese, e le chiese sono difficilissime da amplificare. Ho sviluppato con lui questa attenzione al suono, non mi intendo di musica, io dico solo quanto mi piace e quanto non mi piace, poi sono uno che cos'è che mi dà noia lo sa perfettamente, cos'è che vuole non lo sa mai.
Si vocifera che non hai fatto le prove nel tour estivo coi CCCP, dei tuoi suoni si è occupato lui?
È vero, non sono mai salito sul palco prima di cominciare a cantare, le spie me le fa Mauro, sistema tutto lui, anche il soundcheck io non lo faccio da vent'anni, lo fa Mauro, perché io mi confondo, lui no. È arrivato coi CSI, all'inizio come assistente di palco, poi fonico di palco, e poi quando io ho iniziato a lavorare da solo ho deciso subito che volevo lavorare con lui. Ci siamo sempre trovati molto bene, senza dirci mai qualcosa, ci siamo trovati bene e basta quindi io so che se non è Mauro comunque non funzionerà.
C’è questa “moltitudine”, questa parola bellissima: mentre ascoltavo, guardavo lo spettacolo pensavo che ti si addicono molto quelle parole tanto note di Whitman “Mi contraddico? Certo che mi contraddico! Sono vasto, contengo moltitudini”
Esattamente. È bellissimo! Moltitudine è una parola che si è prima determinata in teoria: la rassegna all’Olimpico si chiamava “Coro”, moltitudine era la parola che più dava l'idea di quante cose la mia voce è stata da quando io sto sui palchi. La folgorazione finale l’ho avuta la sera di Bologna, appunto, in piazza Maggiore, quando ho aperto gli occhi, e ho visto una moltitudine davanti a me, e ho detto “beh, moltitudine fuori, moltitudine dentro”, moltitudine è la parola che tiene insieme ogni riflessione, e lì, in quel momento è uscita anche l’espressione cruciale di questo testo cioè “dal fonte battesimale alla pietra tombale” visto che ero stato male.
Nel testo dello spettacolo infatti racconti di aver avuto un infarto meno di un mese prima del concerto bolognese, il primo del tour italiano della reunion dei CCCP.
Esatto, ho avuto un infarto il 26 di aprile, e sono salito sul palco il 21 maggio.
Quando sono uscito dall'ospedale il medico mi ha detto: “per 30 giorni non puoi fare assolutamente niente, e devi pensare solo che sei fortunato perché sei vivo” però abbiamo parlato e gli ho detto di aver già sperimentato che la dimensione del palcoscenico per me è molto terapeutica.
Già altre due volte ero stato in ospedale con problemi gravi, mi hanno tolto un tumore e mi hanno tolto tutto lo stomaco, quando sono cominciati i CSI noi dovevamo fare il primo concerto a Pistoia e io sono finito all'ospedale tre giorni prima del concerto, ci sono stato un mese, mi hanno tolto tutto lo stomaco perché l'avevo già operato due o tre volte e sono uscito che ero un cadaverino, ma avevamo comunque una tournée. Sai, senza stomaco è un casino, e io veramente non stavo in piedi, ma avevo discusso con il medico, che mi aveva detto di stare attento e non fare sforzi però per me la musica è sempre stata terapeutica.
E gli altri, a Bologna, non avevano paura?
Ma no io ho detto anche gli altri “se muoio sul palco va bene, è una figata, siate contenti, comunque siamo qui” e Zamboni, l’ateo per grazia di Dio, mi guarda e mi fa: “a morire son capaci tutti, il problema è risorgere”. Capito che uscita? (Ride)
Quella volta coi CSI nei primi due concerti mi avevano dato una seggiolina, perché facevo fatica a stare in piedi, quando mi sono messo in piedi davanti al microfono però poi non mi sono mai seduto: io credo che senza il palcoscenico sarei morto un sacco di tempo fa, senza i cavalli anche, e lo dico anche se ho litigato col palcoscenico tutta la vita.
Ti ci sei pacificato, no?
Sì, il palco è un luogo infido, pieno di cavi come serpenti, di spie, è un luogo pericolosissimo che io non voglio frequentare, mi piace il palco quando è vuoto e pulitissimo, quando non c'è assolutamente niente. Quando abbiamo finito di lavorare con i CSI ho detto che non sarei tornato sul palco, poi ho conosciuto la musica popolare, Ambrogio Sparagna, le piazze, le feste, i palchi non istituzionali, era tutto molto diverso. Ho messo in piedi uno spettacolo con Barberio Corsetti che mi ha proposto un palco vuoto in cui potevo stare anche a fumarmi una sigaretta, così ho ricominciato a considerare il palco in altro modo. Per riappacificarmi con la musica ci ho messo molti anni, ora quel problema non c’è più, a un certo punto mi sono detto: Ferretti ti devi arrendere.
A quello che sei.
A quello che sono.
Annus horribilis in decade malefica, cantavi, e hai cantato anche all’Olimpico. Ma quest’anno, se ci metti anche il fatto di essere ancora qui e stare bene, per te è stato incredibile.
Incredibile, sì, un mare di gente, di umanità diversa, commovente, meravigliosa, varia, li guardavo quando andavo via in auto dopo i concerti, ognuno di loro trovava la sua ragion d’essere lì, insieme, per i CCCP, vedevo i loro volti contenti, erano meravigliosi. Una bellezza. Io non soffro la solitudine ma gli abbracci di questi umani mi hanno dato moltissimo.All’inizio avevo detto di no al tour, sapevo che gli altri stavano tramando questa cosa, ma io ho detto no, non c'è possibilità di farla, perché non è più il tempo, non è più l'età, finiremo tutto a Berlino, quindi il problema lì era arrivare a Berlino. Poi ho detto di sì alla tournée, perché quando me la sono trovata presentata, cominciava a Bologna e finiva a Palazzo Te, e qui per me erano due estremi irresistibili, cioè erano due cose che mi hanno spiazzato, perché se fosse cominciata a Milano e finita a Firenze, avrei detto no con tranquillità, ma Palazzo Tè e piazza Maggiore sono proprio la mia intimità e se avessi detto no dopo questa cosa sarebbe diventata una mancanza, cioè un pensiero che non ti lascia più, infatti quando provavano ad aggiungere date dicevo no, perché a Mantova è dove io sono stato generato e lì per me doveva finire tutto.
Lo spettacolo che hai portato in scena all’Olimpico ha questa matrice psicoanalitica, lavora sulla memoria, sullo scavo, a un certo punto torni a tuo fratello, al suo rapporto con lui come origine del tuo cantare.
Sì, io avevo sempre dato la colpa a Zamboni poi mi è all’improvviso venuto in mente che c'era anche mio fratello ancora prima, perché con lui andavamo a funghi e lui cantava.
Non ti era venuto in mente perché dare la colpa a Zamboni era più facile!
Sì, ma poi ce l'hai lì, come fai? E non c'è dubbio che lui abbia colpa in questo, ma che potessi dare la colpa a mio fratello è stata una grande sorpresa, subito dopo il live di Bologna io mi sono messo a cantare Il Mondo di Jimmy Fontana e non capivo come mai, poi mi sono ricordato all’improvviso, sono tornato a mio fratello così, ricantandomi questa canzone italiana perché me l’aveva insegnata lui quando ero un bambino.
A un certo punto del testo, in scena, la moltitudine diventa due, siete tu e Tre, uno dei tuoi cavalli del Cerreto, a cui tu scrivi una lettera. Perché hai scelto questa formula?
Perché, comunque, al di là della dimensione, al di là di quello che stava accadendo sul palco, sulla piazza, tutto il resto, il ritorno a casa vuol dire il silenzio, la montagna, un altro tempo, proprio un'altra età, e il mio riferente per questo è Tre.
Quindi ho ripreso la lettera a Tancredi scritta dopo i CSI e qui il mio destinatario è diventato Tre. Lo spettacolo alla fine risulta in tre blocchi. C'è Piazza maggiore, poi c'è la mia vita di uomo, insomma, la formazione, e poi c'è l'importanza dei cavalli, cioè i cavalli sono quelli che hanno salvato la mia vita.
Diciamo che nell'intimo i cavalli hanno avuto la stessa funzione che nel sociale ha avuto il palcoscenico.
C’è un passaggio importante, nel testo, in cui rifletti sulla fine che faranno i cavalli e quella a noi destinata, schiacciati nel processo della massificazione, in una certa misura morti ancor prima di esserlo davvero. È un passaggio profondamente pasoliniano. Volevo appunto chiederti da molto che rapporto hai con Pasolini.
Quello è un Pasolini masticatissimo, compreso, io non l’avrei detto ma ora che me lo dici sì, è molto evidente, è quella cosa sua. Da giovane, essendo cresciuto mentre cresceva il Pasolini pubblico, lo guardavo insieme sospettoso e attratto, affascinato, è proprio qualcosa di generazionale quello sguardo che avevo allora. Non ho letto i suoi romanzi quando sono usciti, nell’adolescenza, ma l’ho conosciuto prima come cineasta, andavo tantissimo al cinema e ai concerti allora, e i suoi film mi sono piaciuti tantissimo. Alcuni non erano bellissimi in senso canonico ma li avvertivo necessari. “Uccellacci e uccellini” mi aveva colpito tantissimo per il bianco e nero, per la dimensione estetica, anche se c’era tutta una serie di cose che non avevo gli strumenti per capire. “Teorema” invece mi incantò, anche quello era complesso per la mia età, ma Laura Betti che ascendeva davanti a me che ero ateo, anticlericale, bestemmiatore, con quell’irruzione della religiosità, e con quel finale… sono uscito dal cinema sconvolto, mi chiedevo “ma cosa ho visto?”. Poi ho amato moltissimo Il Decameron e quell’altra parte del suo lavoro di autore di film.
Dopo la sua morte ho scoperto i suoi scritti, la sua poesia, e lì ho capito il poeta, ho capito che lui era soprattutto un poeta.
A proposito di religiosità, arriviamo all’ultimo frammento dello spettacolo.
Sì, perché volevo, anche determinato dal luogo, finire con la preghiera più bella che io conosco che è il Te Deum
Quanto ha influito il luogo lavorando al testo, l’idea di farlo in questo teatro precisamente unico al mondo?
Tantissimo. Ti racconto bene quanto: io sono nato come alla fine del medioevo in una grande casa che si stava sgretolando, con una nonna che sapeva tutto quello che era accaduto fino alla fine del ‘600, che chiamava Reggio Emilia ancora Reggio di Lombardia. Da quando nasco fino a scuola vivo in questo mondo mio e di mia nonna Maddalena, fuori dal mondo, lontano dalle radio, dai giornali. Per le elementari mi mandano in collegio a Reggio perché studiare è una cosa seria. Allora i bimbi ricchi andavano a studiare coi Gesuiti e quelli poveri coi Salesiani. Lì incontro tre suore venete: suor Battistina, suor Rosalia e Madre Aurelia Strozzi. Democrazia cristiana pura, anticomuniste, comunque persone belle. Mi hanno portato in gita all’Olimpico, secondo me in un tempo in cui solo le suore riuscivano a entrarci. Io sono tornato a casa e non sono riuscito a spiegare a mia nonna cosa avessi visto, non possedevo le parole e lei non ne possedeva la visione. Se raccontavo di Oropa, altro posto che mi aveva incantato, raccontavo cose che lei capiva perché lei i santuari li capiva ma il teatro, un simile teatro poi, impossibile da spiegare. L’olimpico era impossibile da dire.
Alle medie e alle superiori sono tornato all’Olimpico, lì ho capito, sono riuscito a processare questa cosa ideale rispetto a cosa è il teatro costruito tra l’umanesimo e il rinascimento. È diventanto costitutivo della mia idea di teatro, immediatamente. Come l’Amleto.
Infatti nello spettacolo rifai anche la scena del teschio, ma usando quello di Tancredi, il tuo cavallo che ora non c’è più.
Sì, volevo fare questa a cosa a tutti i costi, rifare la mia idea di teatro nel luogo che è la mia idea di teatro raccontando del mondo, che è il motivo per cui c’è il teatro, e questo a costo di essere irriso.
Dire sì all’Olimpico, insomma, come dire sì a Berlino e poi a Bologna e a Mantova.
Esatto, alla fine della vita lo sai, o è sì o è no, non c’è altro, quando sei giovane sperimenti con i “non so”, poi a un certo punto quello che ti riguarda lo sai, non ci si può proprio fare nulla.
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