Il giorno zero di Roma fu il 21 aprile del 753 a.C., quando un uomo chiamato Romolo delimitò il confine di una città che ancora non esisteva. Lo accompagnava un gruppo di pastori, contadini, fuorusciti di tutti generi, gente raccogliticcia del bosco e del fiume. Secondo il responso degli indovini – perché nulla si poteva fare senza consultare le forze invisibili – Romolo scavò una fossa e vi fece cadere delle offerte, poi ciascuno dei presenti gettò una manciata della terra da cui proveniva e le zolle si confusero tra loro, come quegli uomini senza patria si stavano fondendo in una sola città.

Questa è la leggenda che tutti conoscono. Se sia stato davvero Romolo a fondare la città non lo sapremo mai; sappiamo però che i dati del mito coincidono sorprendentemente con quelli dell’archeologia, perché attorno alla metà dell’VIII secolo a.C. sul Palatino prese corpo una comunità urbana; capanne sparse e villaggi si trovavano già assai prima in quei luoghi. Lo chiamavano il septimontium, i sette colli; come scrive l’erudito Varrone, “ove ora è Roma, allora vi era il septimontium”.

I Romani non si vergognavano di queste umili origini, anzi ne erano orgogliosi. “Tutto ciò che vedi, straniero, questi luoghi dove ora sorge l’immensa Roma”, scriveva Properzio quando Roma era ormai diventata il centro del mondo, “prima che arrivasse il Frigio Enea erano colline ed erba, e dove ora c’è il sacro tempio di Febo Navale si sdraiavano le vacche del profugo Evandro; questi templi d’oro crebbero da idoli d’argilla, non ci si vergognava di una casa costruita senza alcuna arte. Il padre Tarpeo (cioè Giove) tuonava da una roccia scabra, e per i nostri buoi il Tevere era un fiume lontano”.

Roma discende da un profugo sconfitto, il troiano Enea che trovò rifugio in Italia, e da una coppia di trovatelli che furono nutriti da una lupa.

Dèi minori

Il dies natalis di Roma era un giorno qualsiasi: coincideva con la festa dei Parilia, in onore di Pale, una piccola divinità di pastori di cui null’altro si sapeva ed era incerto persino il sesso; in genere la si considerava una dea, ma a volte si parlava anche di due Palii, uno di genere maschile e uno femminile.

Era una figura legata al primitivo mondo dei pastori, quello appunto da cui Romolo e Remo provenivano: una delle tante forze invisibili che presiedevano a un singolo àmbito e solo a quello.

Il dio Terminus vigilava sui confini, il dio Sterculinius sulla concimazione dei campi, la dea Robigo sulle malattie delle piante. Erano dèi – o forse è meglio dire forze occulte – perennemente indaffarati a sorvegliare, vegliare, nuocere a chi non li onorava: un elenco lunghissimo che solo i pontefici conoscevano e custodivano gelosamente.

Erano chiamati dii minores, “piccoli dèi”, o anche dèi degli indigitamenta, cioè degli incantesimi con cui li si teneva buoni, ed erano ben distinti dagli dèi maggiori come Giove o Diana. Erano dèi tipicamente romani, legati agli aspetti più concreti della vita, assiduamente all’opera, invisibili e onnipresenti.

Così, quando una donna aveva partorito e si trovava quindi nel momento più delicato e pericoloso, tre uomini armati di scure, pestello e scopa si piantavano davanti alla porta di casa per impedire, battendo la soglia rumorosamente, che entrasse Silvano, il pericoloso demone dei boschi che l’avrebbe messa in pericolo; e invocavano i piccoli dèi protettori della soglia, Pilumno (cioè il dio del pestello), Intercidona (la dea del taglio della scure) e Deverra (la dea della scopa). Sembra folklore o magia, e invece è religione, nel senso romano del termine.

I sette re

Quello che sarebbe diventato il caput mundi iniziò il suo cammino in un ambiente oscuro e selvaggio, di cui nessuno in giro per il mondo sapeva niente; quando Ulisse costeggiò le coste tirreniche trovò Ciclopi, Sirene, la maga Circe, ma sino al Tevere e alle sue genti boschive non si spinse mai. La differenza con l’abbacinante mondo egeo in cui i Greci ambientavano i loro miti non potrebbe essere più evidente.

Allora l’Egeo era in contatto con civiltà millenarie e gli aedi ne cantavano i miti, mentre le Muse suonavano la cetra sull’Olimpo e gli dèi, eterni fanciulli, banchettavano splendidi e lieti. Quella fu la dorata alba della nostra civiltà.

Il mondo in cui Roma nacque era completamente diverso. Non c’erano dèi, né cantori, né Muse, né grandi città da fondare, né terre da esplorare. Il mito greco celebra le avventure meravigliose di eroi che giravano il mondo e la cosmologia degli dèi che nacquero dal caos primordiale. E il mito romano?

Potremmo quasi dire che non esiste, perché i Romani adottarono in toto la mitologia greca e la trasmisero sino a noi. Ma una civiltà senza mito non può esistere: e così, per i Romani, fu la storia più antica della loro città e delle sue istituzioni a fungere da mito.

Questi sette re che Roma pose all’inizio della sua storia furono davvero i suoi eroi, anche se non uccisero mostri e non compirono imprese epiche; vivevano nella loro città tra i colli e il Tevere e si occupavano di farla crescere a poco a poco. Questa fu in definitiva la grande differenza tra le due civiltà; il mito, e poi la storia greca, fu il prodotto di individualità gigantesche, da Achille a Leonida che si immolò alle Termopili e ad Alessandro che in una fiammata di gloria di pochi anni conquistò il mondo. Roma invece fu il prodotto della vita collettiva dei cittadini che progressivamente, generazione dopo generazione, resero immensa la loro città, a partire dall’epoca della repubblica.

Le Vestali

Individualismo e collettività; un erudito greco disse stupito che i Romani erano maestri nel costruire strade, acquedotti, fognature, terme – cioè infrastrutture. I Greci costruivano templi, teatri, belle città. Possiamo ben dire che fu un caso unico nella storia, compresa quella contemporanea, che ancora all’epoca di Agostino, alla fine del IV secolo dopo Cristo, un cittadino romano potesse partire dai confini della Scozia per arrivare sino in Mesopotamia e in Egitto sempre all’interno di un solo stato e di uniche leggi, percorrendo strade ben costruite e ben tenute che portavano ovunque.

All’inizio però si ricordavano questi sette piccoli re (in realtà, a ben vedere, otto, perché per alcuni anni Romolo fu affiancato da Tito Tazio, re dei Sabini). Ognuno di loro fece fare un passo avanti a Roma. Romolo fondò la città, Numa Pompilio le diede le leggi sacre che formarono il vero cemento di Roma nei secoli, Tullo Ostilio rafforzò l’esercito, Anco Marzio costruì il primo ponte su cui poi un eroe repubblicano, Orazio Coclite, bloccò da solo l’assalto degli Etruschi, Tarquinio Prisco costruì la Cloaca Maxima, Servio Tullio le mura, Tarquinio il Superbo il tempio di Giove.

Poi l’ultimo re fu cacciato per la sua superbia e perché aveva offeso l’onore di una matrona, Lucrezia, l’eroina della città, a cui si deve in fondo la fondazione della repubblica. Accanto a questi re troviamo suggestive figure femminili: la ninfa Egeria che dettò a Numa le leggi sacre; Tanaquilla l’etrusca che portò sul trono due re; e tante altre, a partire da Rea Silvia, la vestale che diede alla luce i due gemelli fondatori.

Sinché Roma fu tale e le sue tradizioni culturali sopravvissero, il collegio delle vergini Vestali rappresentò l’essenza stessa della città: il più antico tempio della Vestali, poco più che una capanna, fu costruito nell’VIII secolo a.C., cioè nell’epoca in cui Romolo fondò la città, e ne sono state trovate le fondamenta; l’ultima Vestale di cui abbiamo memoria si chiamava Celia Concordia ed esercitò il sacerdozio alla fine del IV secolo d.C., quando i vertici dell’impero si erano ormai cristianizzati. Più di undici secoli, dal tempo in cui Roma era un villaggio a quello in cui era il caput mundi il fuoco di Vesta arse ininterrottamente proteggendo la città: ma nel 394 l’imperatore Teodosio, cristiano, vietò il culto pagano e fece allontanare le Vestali dalla loro sede. Fu quello il giorno in cui la Roma antica morì davvero.


Giulio Guidorizzi è autore del libro Il grande racconto di Roma antica e dei suoi sette re, edito da il Mulino

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