I 12 anni di regime nazista coincisero con il boom della fotografia e con uno sforzo senza pari per incoraggiare i tedeschi a dotarsi di una macchina fotografica e creare album famigliari, contribuendo a scrivere la storia della nuova Germania
Quante sono le immagini della Shoah che mostrano le uccisioni di massa in presa diretta, con gli assassini colti in flagrante? Appena una decina. Ce lo dicono le fonti sinora disponibili e i maggiori studiosi dell’argomento.
I centri di sterminio di Bełżec, Sobibòr o Treblinka sono una pagina bianca. Non conosciamo fotografie delle camere a gas in azione, né delle operazioni connesse alle uccisioni sistematiche (salvo i quattro scatti clandestini realizzati nell’estate 1944 da alcuni prigionieri del Sonderkommando di Auschwitz, in cui, tuttavia, non si vede direttamente l’assassinio mentre si compie). Per comprendere come si è svolto il processo di sterminio dobbiamo ricorrere ad altre fonti: i documenti nazisti, le testimonianze degli ex comandanti e i racconti dei pochi superstiti.
Due milioni di foto
Eppure, il numero di foto connesse alla distruzione degli ebrei e ritrovate nel dopoguerra è impressionante: oltre due milioni. Scattate in momenti, contesti e con scopi diversi, sono immagini che restituiscono punti di vista anche diametralmente opposti.
Si pensi ai reportage della propaganda nazista nel ghetto di Lodz (Polonia annessa) e alle foto scattate clandestinamente da alcuni fotografi ebrei prigionieri, come Mendel Grosman e Henryk Ross. Anche quando la scena appare simile – gli ebrei moribondi per le strade– la prospettiva cambia radicalmente. Il valore di una fotografia, è banale ricordarlo, non sta solo in quello che mostra, ma nello sguardo di chi vede, nell’angolatura adottata, nello scopo che sta dietro quello scatto.
I 12 anni di regime nazista coincisero con il boom della fotografia e con uno sforzo senza pari per incoraggiare i tedeschi a dotarsi di una macchina fotografica e creare album famigliari, contribuendo a scrivere la storia della nuova Germania all’insegna del mito del popolo ariano. Vennero stampati manuali d’istruzioni su come posare per far risaltare le proprie origini razziali e banditi concorsi fotografici.
I soldati, in particolare, ricevettero direttive minuziose su cosa fotografare in guerra. Non si contano gli album in cui semplici cittadini, SS o militari celebrarono la propria vita e carriera, collezionando anche scatti, non di rado acquistati in appositi mercatini, degli ebrei perseguitati, rinchiusi nei ghetti e abusati. Stiamo parlando di collezioni private, non a scopo ufficiale e propagandistico.
Le scoperte recenti
Perché si sono conservate poche immagini del processo di uccisione? Non averle (ancora) ritrovate non determina il fatto che non siano mai esistite. Negli ultimi anni sono state scoperte collezioni fotografiche di valore storico inestimabile, che mai avremmo immaginato potessero esistere.
Tra le più recenti: il pogrom della Notte dei Cristalli (1938), le deportazioni degli ebrei del Reich (1939-1942) e la distruzione del ghetto di Varsavia (1943).
Inoltre, è documentato che malgrado i reiterati divieti di Himmler e di Heydrich che vietavano di riprendere le fucilazioni di ebrei, spesso perpetrate sotto gli occhi di tutti, e ciò che accadeva nei lager, in realtà gli ordini vennero spesso trasgrediti.
Lo dimostrano le migliaia di foto scattate dai tedeschi sul fronte orientale che documentarono scene di violenza contro gli ebrei locali (soprattutto in Polonia) e che vennero spedite ai famigliari con la corrispondenza privata. Questi fotografi dilettanti agirono per iniziativa personale, ma anche su emulazione, in un forte spirito di cameratismo e indottrinamento all’antisemitismo e all’orgoglio “razziale”, non immuni dall’attrazione macabra per il corpo umiliato e annientato dell’ebreo, da conservare come souvenir e trofeo.
Le domande
Ma torniamo al punto delle poche foto che raffigurano lo sterminio. Perché considerarle un limite e continuare ad arrovellarsi sulla questione dell’irrappresentabilità della Shoah, quando invece l’aspetto storiograficamente più rilevante riguarda ciò che possiamo imparare da tutte le altre migliaia di immagini della Shoah che già possediamo?
Questo implica, è evidente, riconsiderare la definizione stessa di fotografia della Shoah. È pertinente solo per le immagini dei massacri sistematici, mentre sono da escludere quelle riferite ai primi anni di persecuzione? Esistono confini cronologici e spaziali che delimitano la categoria? Se una foto scattata sul luogo del crimine (un ghetto, un campo o centro di sterminio) non mostra segni di esplicita violenza sulle vittime, può considerarsi ugualmente, a pieno titolo, un documento visivo che appartiene alla storia della Shoah?
Sono domande complesse che sollevano tanti aspetti e richiedono rigore di metodo e la giusta sensibilità. Nell’immenso repertorio fotografico della Shoah ci sono immagini difficili da trattare, perché difficilmente assimilabili alle categorie dell’orrore alle quali siamo abituati, in cui fatichiamo a riconoscere il male e a chiamarlo per nome.
L’album di Koch
Dicembre 1940, Buchenwald. Così si legge dalla pagina dell’album del comandante Karl Otto Koch, ritratto con la moglie Ilse e i figli Artwin e Gisela. Koch dirige il campo già da tre anni e con la consorte si è distinto per efferata crudeltà, corruzione e perversione sessuale. La coppia abita una sontuosa villa sontuosa adiacente il lager, la domenica ama passeggiare coi bambini, nati a Buchenwald, per visitare lo zoo, situato accanto al cancello di ingresso dei prigionieri, allestito per svagare le SS.
Il benessere dei Koch è palese, basta osservare gli abiti che indossano (Ilse ha una pelliccia) e la tranquillità con cui posano mentre i bimbi giocano nella neve, come una famiglia qualunque. Senza la conoscenza storica della biografia dei perpetratori e dei crimini commessi a Buchenwald, sembrano foto innocenti, persino banali.
Non c’è traccia in questi scatti spensierati della spietata violenza del campo di concentramento, anzi, ne sono quasi la negazione. C’è pace, ordine, serenità, gente “comune” che non indossa la divisa da carnefice e non è armata. Accostate alle testimonianze dei superstiti, sono foto indubbiamente irrispettose della sofferenza delle vittime, tanto da poter essere respinte come false rispetto alla storia di Buchenwald.
Eppure non si antepongono alla verità del male come ricostruzione menzognera, vanno comprese come il punto di vista dei Koch non sul lager, ma su sé stessi. Sono fotografie disturbanti? Sì, nella misura in cui non si conciliano con la narrazione tradizionale dei lager e sembrano mostrarci la “banalità del male”.
Ma sono anche immagini necessarie perché ci offrono il punto di vista dei perpetratori, la visione del mondo al quale sentivano di appartenere. I Koch non erano affatto persone ordinarie, capitate per caso al centro del sistema di violenza di massa che il regime esercitava su milioni di persone. Per dirigere Buchenwald seppero far prova di ferocia e sadismo, approfittando senza ritegno dei vantaggi connessi al proprio ruolo.
Le fotografie della Shoah sono tessere di un mosaico, una pluralità di immagini delle quali nessuna è in grado di restituire l’entità del genocidio, ma ognuna concorre a illuminare il quadro da prospettive diverse, anche sfidando il nostro sguardo e la nostra capacità di saper immaginare oltre ciò che si vede.
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