Una femmina di cervo, ferma di fronte a un muro coperto di graffiti. Un palazzo di mattoni, un albero, un cavalcavia. L’animale è bianco. Sembra albino. È con questa immagine – una sorta di Moby Dick da provincia americana – che si apre King, Queen, Knave, l’ultimo libro di Gregory Halpern, pubblicato in questi giorni dall’editore inglese Mack. Si tratta di una sequenza di 61 fotografie a colori, che il fotografo americano ha realizzato negli ultimi vent’anni nella sua città natale: Buffalo.

Halpern è forse l’autore americano, insieme ad Alec Soth, che più ha influenzato la fotografia dell’ultimo decennio. Il suo capolavoro è Zzyzx (non è un refuso, ma il nome reale di una località nel deserto del Mojave, nel sud della California), che nel 2017 si è aggiudicato l’Aperture/Paris Photo Award, il più importante riconoscimento per i libri di fotografia. Le sue immagini emanano una poesia eloquente e allo stesso tempo elusiva. Animali che sembrano usciti da racconti epici. Uomini che assomigliano a profeti dell’Antico Testamento.

Eppure nulla è costruito in laboratorio. La messa in scena, se c’è, è minima. Nessun trucco, o quasi. È proprio questo il gioco di Halpern: usare il materiale della realtà, quello che si fissa sulla pellicola attraverso la luce, per creare un’opera di fiction. L’unica strada possibile, a suo parere, per non allontanarsi troppo dalla verità delle cose. Per non mentire eccessivamente. In diverse occasioni ha parlato del suo lavoro in termini di “realismo magico” o addirittura di “surrealismo”. Strano per un membro della prestigiosa agenzia fotografia Magnum Photo, alla quale è stato ammesso in modo definitivo l’anno scorso.

«Buffalo è il luogo dove ho imparato a guardare il mondo», spiega Halpern a Domani. «Ha formato la mia visione di bambino, quando con mio fratello Jake (oggi giornalista e scrittore Premio Pulitzer, ndr) esploravamo le rovine della città. Una volta aveva il doppio degli abitanti, poi le industrie hanno chiuso e hanno lasciato questi luoghi fantasma, che a me davano un senso di possibilità». Halpern vive e insegna a Rochester, a un’ora di auto dalla città dei suoi genitori.

In questi anni ha continuato a tornare, nel tentativo di cogliere lo spirito di quei luoghi, o almeno ciò che quelle situazioni suscitavano in lui. «Col tempo ho perso fiducia nella capacità della fotografia di descrivere le cose in modo fedele. È impossibile dire che cos’è Buffalo attraverso le immagini. E, devo dire, mi interessa sempre meno farlo». Per descriversi Halpern usa una categoria presa in prestito dalla letteratura: «”Narratore inaffidabile”.

È qualcuno che non ha la pretesa di dirti le cose come stanno, e tu sai che ciò che racconta non corrisponde completamente alla realtà. È in questa zona grigia che mi piace stare, e penso che sia il luogo dove l’arte funziona meglio».

Gialli giallissimi

C’è molta neve in King, Queen, Knave. Strade e case imbiancate. Abitazioni sbilenche. Uomini in nero col viso coperto da un passamontagna. Uno squarcio in una rete metallica che apre un varco in una recinzione. Ma non solo: i fiori e i colori della primavera. Gialli giallissimi. Rosa squillanti. «Si potrebbe dire che è un libro sull’idea di entropia», spiega Halpern: «Negli anni ho cercato di selezionare le immagini che toccavano più da vicino i temi della vita, della morte e della rinascita».

E cosa rappresenta quello strano animale con cui si apre l’opera e che riappare due volte nel corso della sequenza di immagini? «Tecnicamente non è albino. È un cervo pezzato, ma completamente bianco. È una creatura speciale, che vive in un quartiere di Buffalo al confine di una zona industriale e un bosco. La gente lo considera un animale magico, un portafortuna. Si chiama April. Tutte le volte che torno la vado a trovare». Torna alla mente la giostra dei giardini del Jardin du Luxembourg di Rainer Maria Rilke: «Und dann und wann ein weißer Elefant».

Verso la fine del libro appare una foto di una croce bianca appoggiata sulla soglia di una porta bianca di un edificio dalle pareti dello stesso colore. Il terreno è innevato. Alle tre estremità della croce si trovano le parole “King”, “Queen” e “Jack”, le tre figure dei mazzi di carte. «Mi ha sempre interessato la metafora del gioco per descrivere la vita. C’è un’ambientazione, dei personaggi. A volte devi aspettare, altre devi agire prontamente. Ci sono aspetti che puoi controllare e situazioni legate al caso. C’è chi vince e chi perde. E, a un certo punto, il gioco finisce».

Uomo con stampelle

C’è la foto di una partita a domino. Su un davanzale di un balcone è appoggiata una scacchiera coperta da un dito di neve. Eppure il titolo non coincide con il terzetto di parole che compaiono sulla croce: «Ho scelto di usare il termine inglese arcaico per indicare il fante, “Knave”, perché ha anche una connotazione negativa (si può tradurre anche come “canaglia”, “briccone”, “mascalzone”).

Questo perché quando si guarda un volto non sai mai chi si cela dietro. E una fotografia non può dirtelo. Spesso ci affidiamo alle persone in modo istintivo basandoci soltanto sull’aspetto esteriore. Io amo pensare che dietro ogni volto possa celarsi contemporaneamente un re, una regina o una canaglia». E di ritratti in questo libro ce ne sono di meravigliosi.

La ragazzina trasognata, il giovane con le stampelle davanti un muro di mimose, l’uomo dagli occhi di ghiaccio con un cerotto sullo zigomo. «I soggetti che preferisco sono quelli che hanno caratterizzazioni diverse e, a volte, opposte. Un uomo, ad esempio, può apparire contemporaneamente aggressivo e vulnerabile. E questo a me commuove in modo particolare. Se un volto suggerisce delle contraddizioni a me pare più umano, perché riesce a mostrare meglio ciò che abbiamo dentro».

Le ultime immagini del libro, spiega Halpern, parlano della fine. C’è una gabbia di colombi appoggiata sul tavolino. Poi un portone abbassato su cui è disegnato un cancello socchiuso (si sta aprendo o si sa chiudendo?). Di seguito un uomo, in piedi in un bosco innevato, che guarda al cielo con le braccia levate a mo’ di preghiera. Poi la fotografia più misteriosa, che è anche quella posta sulla copertina del libro. Sembra un cielo notturno, tempestato di stelle, al centro del quale sembra esserci una nube rossa che assomiglia a una galassia.

Ma è evidente che non si tratta di un cielo, vista la trama di una superficie che potrebbe essere una porta in metallo o un soffitto. La sequenza si chiude con il volo notturno di un piccolo stormo di uccelli, dei quali ci sembra sentire lo sbattito sinistro delle ali nella notte gelida. «Non è necessariamente una tragedia. C’è il tema della caduta, sì. Anche quello della lotta. Ma c’è un senso di ascensione, proprio nel finale». Se si sfoglia da capo il libro, non si ritrova l’atmosfera funerea che ci si aspetterebbe da chi mette a tema la morte. Il senso, piuttosto, è quello della soglia.

C’è come un senso di destino. «Qualcuno dice che chi non è religioso, come me, trova nell’arte un sostituto della religione. Non so se sia il mio caso. E non è che la morte sia una mia fissazione. Non vivo pensandoci o avendone paura. Ma sono certo che sia una forza molto potente che alberga nel subconscio di tutti. E il mio interesse visivo sembra tornare sempre lì».

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