Ci sono dei momenti in cui interi territori sembrano sfaldarsi e le credenze accumulate in anni sembrano precipitare in qualche anfratto buio. Impossibile recuperarle, impossibile neanche capire dove siano finite.

In questi giorni nel mondo della moda è successo di tutto e sembra veramente che stiamo assistendo a uno di quei cambiamenti epocali che non solo raccontano qualcosa del mondo del lusso, ma ci costringono a riflettere sulle dinamiche finanziarie che governano il mondo, sul rapporto che i mercati hanno instaurato con il fattore umano e, in fondo, su a cosa pensiamo valga la pena credere.

Mistero Michele 

DPRF/STAR MAX/IPx

Alle ore 21.15 di mercoledì 23 novembre le caselle di posta di una quantità infinita di giornalisti sono state prese d’assalto da uno dei comunicati stampa più inquietanti della recente storia della moda: apparentemente senza motivi spiegabili il direttore creativo di Gucci, Alessandro Michele, abbandona il suo ruolo.

La stranezza deriva dal fatto che Gucci è uno dei più importanti brand del lusso sia da un punto di vista di riconoscibilità sia dei risultati economici e che dal 2015, anno dell’entrata in carica di Michele il fatturato è passato da 3,9 a 10,1 miliardi di dollari, con crescite annuali anche del 45 per cento.

Gucci fa parte dell’agglomerato del lusso Kering (proprietario anche di Saint Laurent e Balenciaga tra gli altri) che nel suo complesso fattura la bellezza di quasi 18 miliardi di dollari di cui, appunto, 10 vengono da Gucci.

Quasi contemporaneamente a questo strano fatto un designer molto meno conosciuto dal pubblico, Raf Simons, decide, dopo 27 anni di chiudere il proprio marchio per dedicarsi a quella che da un paio di anni è la sua attività principale: la condivisione della direzione creativa di Prada con Miuccia Prada.

Tra i bene informati si sparge la voce che sia una mossa preliminare per prendere definitivamente in mano lo scettro di Prada e lasciare Miuccia a una pensione dorata.

Anche se apparentemente i due episodi non hanno niente in comune, in realtà ci raccontano tantissimo di quanto il mondo del lusso stia seguendo traiettorie che sono molto più vicine a Wall Street che a Via Montenapoleone e di quanto quello che viene considerato il settore della creatività per eccellenza, spesso avvicinato all’arte, sia in realtà (spesso) una infernale macchina da soldi con un bassissimo senso di rispetto per la componente umana.

I freak di Michele 

GUCCI Fall/Winter 2022-23 Runway during Milan Fashion Week, February 2022 - Milan, Italy. 25/02/2022 Photo by: Ik Aldama/picture-alliance/dpa/AP Images

Torniamo ad Alessandro Michele. Quando nel 2015 diventa direttore creativo di Gucci, sostituendo la scialba regnanza di Frida Giannini, introduce nel gioco qualcosa di estremamente potente e mai visto prima nel mondo della moda. Qualcosa che ha a che vedere con una volontà assertiva e una capacità narrativa esclusiva, cioè unica del brand.

Mentre il marketing ci ha detto per decine di anni che è necessario partire dall’ascolto del consumatore, orientarsi al prodotto e sintetizzare le richieste del mercato, Michele si è inventato un mondo di freak nostalgici, ricchi ma disgraziati, belli ma sfortunati e problematici, rimestando nel torbido di un’estetica decadente che non solo non parla di bellezza ma addirittura si esprime attraverso la rappresentazione della marginalità.

Questo lo ha portato ad avvicinarsi al tema della divisione dei generi, della battaglia per i diritti civili, delle tematiche LGBTQ+ e in generale lo ha reso un ponte tra le speranze e i sogni di una generazione offesa e il superpoteri acquietanti di uno dei marchi più famosi del mondo.

Seguito prima dai giovani cinesi, che di marginalizzazione ne sanno di certo più di noi, e poi scoppiato nel resto del mondo, Gucci con Alessandro Michele ha ampiamente raggiunto il territorio della sacralità, quello in cui stanno i simboli che hanno a che vedere con la sopravvivenza degli uomini, quello in cui ci si rifugia quando si è senza speranza.

Non è la prima volta che la moda mescola istanze sociali con necessità di mercato ma è certo la prima volta che un marchio, da un punto di vista meramente semiotico, viene spaccato, aperto e riempito di significati che hanno a che vedere con l’esistenza, l’aiuto, la reciprocità, l’inclusione, superando quindi di gran lunga i limiti del prodotto e diventando un contenitore di verità.

Diversamente però parlano i fatturati che passano da avere crescite stratosferiche a crescite più contenute, anche a causa della debolezza dei mercati cinesi. Da dentro Kering (che peraltro deriva da Caring, cioè amorevole, premuroso) evidentemente ci si impensierisce e si arriva alla conclusione che tutta questa gigantesca costruzione di senso possa essere tranquillamente gettata alle ortiche perché tanto, si sa, morto un papa se ne fa un altro.

I mercati non accettano questo tipo di rallentamenti di crescita ed esigono la testa (o magari le teste) di qualcuno per poter dire che esiste sempre un pulsante di reset che allontana la pratica degli investimenti dal buco nero del segno meno.

Si decide quindi in fretta e furia di togliere di mezzo Alessandro Michele.

La svolta di Prada 

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Quello che succede invece nel mondo minimalista di Prada sembra alquanto diverso. Prada è una grande azienda con una conduzione ancora familiare e con due proprietari/imprenditori, Miuccia Prada e Patrizio Bertelli, ancora saldamente a capo di tutto anche se l’età avanza anche per loro.

Nel caso di un marchio di moda la questione del direttore creativo, come abbiamo visto, è di fondamentale importanza e in questo caso la coincidenza tra proprietà e stilista rende tutto ancora più problematico.

Chez Prada, pur avendo in-house una serie di delfini pronti a sostituire Miuccia, si è deciso di allontanarsi dallo sguardo familiare e familistico favorendo l’entrata in gioco di Raf Simons, algido designer belga già a capo di Dior e di Calvin Klein, che, oltre ad essere amatissimo dalla stampa, condivide molto sia da un punto di vista estetico che culturale con Miuccia.

L’idea qui pare essere quella di costruire un allontanamento controllato che non provochi strappi, usando un paradigma di cambiamento che non comporti spargimenti di sangue e che quindi è infinitamente meno rischioso.

Anche Prada è una società quotata ma decisamente con una capacità di gestione dell’avvicendamento creativo meno spensierata.

I due esempi fanno riflettere su una cosa di fondo. Ha veramente ancora senso pensare ad una crescita infinita come unico parametro di riferimento ritenendo che il modello capitalista finanziariamente globalizzato sia l’unico possibile?

È una scelta che porta lontano quella di privilegiare sempre il guadagno economico alla costruzione di valore immateriale, alla strutturazione di narrazioni solide, al rispetto del coefficiente umano?

Lacrime

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Mercoledì sera, mentre sui social si svolgeva uno psicodramma mondiale, molte persone mi hanno scritto che stavano piangendo. Persone amiche intime di Michele e persone che avevano messo da parte i soldi per comprarsi un’unica cintura di Gucci.

Il pianto è uno strumento molto potente da un punto di vista evoluzionistico e psichico perché spinge alla manifestazione evidente del dolore e ne favorisce la condivisione.

Non mi era mai capitato di percepire questo senso di lutto, di mancanza, questo bisogno di fratellanza protettiva, neanche quando, recentemente, è morto Virgil Abloh, uno dei punti di riferimento tra i designer per la generazione dei più giovani.

Alessandro Michele, per fortuna non è morto ma a quanto pare la sua dipartita da Gucci è stata registrata come la fine di qualcosa.

È probabilmente la fine di un sogno in cui si coniugavano mercato con espressione personale, identità con fatturati, narrazioni profonde con successi commerciali.

Qui invece si è creata una nuova linea di demarcazione, ancora più profonda di tutte quelle già esistenti che a mio parere porterà ad un progressivo disconoscimento delle grandi realtà, ad una perdita di valore dei mega brand che torneranno ad essere commodities, cioè semplice merce, e a un risorgimento delle realtà indipendenti, le uniche in grado di essere convincenti sul piano della sincerità.

Kering potrebbe aver fatto un grave errore con una scelta così poco motivata ma la questione è che ha affermato in maniera insindacabile che l’azzeramento delle storie, cioè della componente umana, è l’unica strada percorribile per crescere all’infinito.

Il pericolo è che tutto il mondo della moda potrebbe credere a questa favola ma la speranza è che, da qualche parte, ci sia gente che non ci crede e che è pronta a ricostruire un territorio di credibilità dove Kering ha lasciato solo cenere.

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