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Non è facile nutrire chi combatte, non lo è mai stato. Proprio la necessità di garantire il rancio ha dato da pensare a menti brillanti e sono state spesso le esigenze da battaglia ad alimentare la scienza della conservazione di cibi e bevande, perché inscatolare carne e assicurare acqua buona da bere non è e non è stata sempre cosa facile.
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A fronte delle preoccupazioni per battaglie future, sono rivelatrici le testimonianze di chi in battaglia ci andò davvero. La guerra di trincea, la prigionia, l’occupazione sofferte negli anni italiani della Prima guerra mondiale (1915-18) sono raccontate da molte voci, che non mancano di riferire sulle povere tavole pasquali.
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È passato più di un secolo da queste testimonianze – e tante ne potremmo riportare ancora – e la guerra si riaffaccia con modalità nuove nella comunicazione quotidiana. Per quanto cambino però i modi di combattere, è indubbio che la questione della fame e della sete rimanga sempre attuale e irrisolta.
Non è facile nutrire chi combatte, non lo è mai stato. Proprio la necessità di garantire il rancio ha dato da pensare a menti brillanti e sono state spesso le esigenze da battaglia ad alimentare la scienza della conservazione di cibi e bevande, perché inscatolare carne e assicurare acqua buona da bere non è e non è stata sempre cosa facile.
Italia unita
Un giornale torinese intitolato La Gazzetta del Popolo, nato il 16 giugno 1848 per iniziativa di Felice Govean e Giovanbattista Bottero lasciò spazio ad acute riflessioni sulla mensa militare e su quella che veniva considerata l’insensatezza delle regole alimentari vigenti, intrise di un cattolicesimo decisamente malvisto dalla cultura risorgimentale.
L’Italia stava organizzando il suo esercito postunitario e, in vista della Pasqua 1862, La Gazzetta del Popolo dedicò due articoli a mettere alla berlina l’assurdità delle norme alimentari cattoliche applicate alla vita militare. Ai soldati si chiedeva di digiunare due volte alla settimana, e facendosi beffe della richiesta l’anonimo redattore scriveva che nei loro panni avrebbe certo digiunato, ma solo perché pagato troppo poco per permettersi un pasto abbondante. Ma la rinuncia avrebbe causato una serie di bestemmie utili solamente a perdere i meriti conseguiti con il digiuno forzato.
Il secondo articolo indicava nel mercoledì e nel venerdì i due giorni fatali, quelli in cui i soldati dovevano tirare la cinghia come fossero “chierici” o “rampolli ecclesiastici”. Addirittura, le incomprensibili limitazioni avevano impedito loro di festeggiare degnamente i compleanni del re e del principe ereditario, caduti di venerdì.
Al di là delle arguzie, vi era una considerazione di sostanza da fare: un esercito che ammetteva coscritti protestanti ed ebrei perché mai avrebbe dovuto imporre loro regole cattoliche? Serviva all’Italia un’armata robusta, il tempo di pace era ancora di là da venire: Roma e Venezia stavano ancora in mani straniere, tedesche e pontificie.
Italia in guerra
A fronte delle preoccupazioni per battaglie future, sono rivelatrici le testimonianze di chi in battaglia ci andò davvero. La guerra di trincea, la prigionia, l’occupazione sofferte negli anni italiani della Prima guerra mondiale (1915-18) sono raccontate da molte voci, che non mancano di riferire sulle povere tavole pasquali.
Il 31 marzo 1918, domenica di Pasqua, il caporale Angelo Calciolari scrive ai genitori dal campo di Milowitz (oggi Repubblica Ceca), rassicurandoli sulle sue buone condizioni di salute, felice per avere ricevuto una cartolina e un pacco di pane. Alla madre e al padre chiede di spedirgli cibo in scatola, farina, riso, «quello che volete», aggiunge speranzoso.
Che in campi simili non si avesse modo di saziarsi neppure in giorni di festa lo riferiva anche Angelo Giuriati da Meschede (Germania), dove la Pasqua 1917 era passata anonima, tra il tè della mattina, due razioni di pane con un po’ di margarina da farsi bastare fino a sera (mentre si lavorava «in una fornace di pietra»), quando finalmente veniva distribuita la zuppa.
Il cibo al fronte
In seguito all’avanzata dell’esercito austro-tedesco dopo la rotta italiana di Caporetto, il territorio veneto occupato venne abbandonato da molti profughi, mentre altri scelsero di rimanere. Tra questi ultimi vi fu Caterina Arrigoni, che ci ha lasciato un diario pieno di notizie, dal quale si ricava con chiarezza quanto fosse centrale la questione del cibo, sia per i militari, sia per i civili.
La nota del sabato santo 1918 (30 marzo) è ricca di particolari: dai soldati della Croce Rossa che inseguono latte per l’ospedale a quelli che mendicano casa per casa alla ricerca di un rinforzo al rancio secondo alcuni troppo scarso, secondo altri ottimo e abbondante. Caterina Arrigoni racconta dell’assoluta mancanza di alimenti (farina, pane, carne e olio li definisce “articoli ormai mitologici”), a meno di non affidarsi al mercato nero, grazie al quale persone di scarsa moralità si arricchiscono senza ritegno.
Ma le disponibilità economiche del padre della diarista, notaio ed erede di una delle più illustri casate della zona, non impedì alla famiglia di scendere a compromessi morali e «di comprare un pezzo di agnello, per rispetto alla tradizione pasquale». Difficile anche solo pensare all’agnello per chi, come Francesco Caccia Dominioni, sta per conoscere il fronte e osserva durante la messa pasquale 1916 «la sofferenza e il disagio [che] hanno scavato le facce dei superstiti», quelli della brigata Toscana fino pochi giorni prima impegnati sul fronte dell’Isonzo. A una veloce mensa senza festa segue una semplice camminata campestre tra commilitoni, trascorsa cantando aiutati dal vino, a pochi chilometri dalla prima linea.
Anche il gesuita francese Teilhard de Chardin, destinato a una brillante e controversa carriera intellettuale, nella sua corrispondenza di guerra (si arruolò come barelliere volontario) scrisse alla cugina lamentandosi di non essere riuscito a trovare il modo né per vivere la Settimana santa come avrebbe voluto, né a trovare le parole di conforto per i commilitoni affamati ed esausti (Pasqua 1916).
Scelte e questioni irrisolte
È passato più di un secolo da queste testimonianze – e tante ne potremmo riportare ancora – e la guerra si riaffaccia con modalità nuove nella comunicazione quotidiana. Per quanto cambino però i modi di combattere, è indubbio che la questione della fame e della sete rimanga sempre attuale e irrisolta. Lo è per chi combatte, lo è per chi si trova in mezzo ai bombardamenti e al passaggio di truppe ostili. L’accaparramento, il saccheggio, il mercato sregolato dell’emergenza sono tutte dinamiche ben note la cui notorietà non ha contribuito affatto alla cancellazione.
La guerra, molto più di altri eventi imponderabili, non dà scelta, non su cosa mettere a tavola, non su quando mettersi a tavola, non sulla possibilità o meno di festeggiare. Certo, esistono le eccezioni come racconta il caso del padre di Caterina Arrigoni, che da facoltoso leader della comunità può permettersi di trovare e comprare l’agnello pasquale. Ma questa è, appunto, un’eccezione. Il lusso della scelta non lo possiamo dare per scontato, sono davvero innumerevoli le storie di opzioni alimentari impossibili, quella di chi soffre la guerra è una delle più raccontate. Sarebbe bello rimanessero una cattiva eredità del passato.
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