Oggi avrebbe potuto avere 87 anni e alle spalle chissà quante altre montagne scalate, quanti altri quadri dipinti, quante altre fotografie scattate. Le Brigate rosse lo hanno ucciso invece il 24 gennaio 1979 a Genova, all’alba sotto casa appena salito sulla sua Fiat 850 per recarsi in fabbrica, all’Italsider, perpetuandone l’esistenza nella memoria della repubblica.

Il nome di Guido Rossa, probabilmente, senza quel delitto sarebbe resistito oggi al più nella cultura alpinistica italiana: era infatti un grande scalatore, sull’arco alpino ma anche in Himalaya. O in un verbale ingiallito, di quando ha denunciato un collega che distribuiva volantini delle Br in fabbrica.

E in un articolo di giornale, uno solo, l’unico che prima di quell’alba di gennaio aveva fatto il suo nome, per giunta dettagliandone l’aspetto fisico: «Semicalvo, barbuto, con un giubbotto blu, non ha mai rivolto lo sguardo verso l’imputato. “Confermo quanto ho già dichiarato ai carabinieri”, ha detto. Dopo un minuto ha lasciato l’emiciclo».

Il volantino

Quell’imputato era Francesco Berardi, ex operaio della zincatura che faceva ormai l’impiegato, e girava lo stabilimento in bicicletta per consegnare fogli contabili: a quel processo, per direttissima, il 31 ottobre 1978 è stato condannato a quattro anni e sei mesi di reclusione.

Pochi giorni prima, la mattina del 25 ottobre, era stato visto da alcuni operai mentre lasciava un opuscolo vicino a una macchinetta del caffè: era una “risoluzione” della direzione strategica delle Br di qualche mese prima. Il documento è stato consegnato da quegli operai a Rossa, delegato sindacale, che lo ha riferito alla vigilanza interna.

Berardi è stato rapidamente arrestato, con l’accusa di partecipazione ad associazione sovversiva e banda armata. Nel pomeriggio, l’unico a recarsi dai carabinieri per la denuncia è stato Rossa, qualche ora dopo ha verbalizzato l’accusa anche davanti al magistrato. E sempre lui, in aula, è stato l’unico testimone a carico. Un anno dopo l’arresto, Berardi si suiciderà in carcere.

Un punto di svolta

Su Guido Rossa operaio e sindacalista dell’Italsider di Genova, sulla sua scelta che gli è costata la vita, tanti libri sono stati scritti in questi anni.

La sua uccisione segna infatti un punto definitivo di svolta nella parabola brigatista degli anni Settanta, che già l’anno prima con il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro aveva messo a dura prova quella cosiddetta “area grigia” (né con lo stato né con le Br) che in ambienti studenteschi, operai, intellettuali costituiva il terreno di crescita per aspiranti terroristi.

Tant’è che in un comunicato del collettivo operaio dell’Italcantieri, pubblicato da Lotta Continua nel giorno dei funerali, a proposito delle Br come avanguardia della rivoluzione comunista si leggeva così: «Se prima c’era un punto interrogativo, un dubbio, con questa azione così orrenda, esso s’è cancellato dalla nostra mente, perché attaccando il sindacato e con esso il delegato e viceversa, si attacca la classe operaia».

Morte e vita

Lo storico Sergio Luzzatto, in Giù in mezzo agli uomini pubblicato in questi giorni da Einaudi, ha scelto invece un approccio fin qui poco seguito: raccontare di Rossa non solo la morte, la cronaca dei fatti e le sue conseguenze, bensì l’intera sua vita (e infatti il sottotitolo è Vita e morte di Guido Rossa): restituendone quindi un profilo finalmente completo.

E dispiegando così, attraverso lo sguardo e le vicende di Rossa, una parte di storia d’Italia. Dal prologo: «Perché di un uomo intenso, complicato, sanguigno, non circoli unicamente il santino politico del martire esangue. Perché del “compagno Rossa” sia disegnato, finalmente, un ritratto a tutto tondo». E proprio sul prologo presto si dovrà tornare.

Radici

Si parte così da Cesiomaggiore, nel Bellunese, ma non dal 1934 quando Guido Rossa vi è nato, bensì dall’inizio del secolo, passando per le battaglie sul Piave e raccontando del padre Giuseppe minatore in Lorena.

E si cita quell’Angelo Sbardellotto, pure lui bellunese (ma di Tel, sinistra Piave) e pure lui a scavare carbone al confine tra Francia e Lussemburgo, per poi farsi anarchico e attentare (invano) alla vita di Mussolini, finendo giustiziato.

E si ripercorre l’epopea delle balie bellunesi al servizio delle famiglie benestanti del triangolo industriale, tra cui Maria, la madre di Guido, e il trasferimento della famiglia a Torino.

Coincidenze

Luzzatto si è rivolto ai Rossa, in particolare a Giancarlo, il fratello maggiore di Guido oggi novantunenne, e a Silvia Carrara, la vedova. E poi a tanti amici dell’operaio.

Nel libro compaiono anche rare immagini di cent’anni fa, oltre a quelle del Rossa alpinista: la cui bravura nell’ambiente era nota, ma al grande pubblico che leggerà il libro le pagine più sorprendenti risulteranno probabilmente proprio queste. Oltre a quelle sul primo figlio di Rossa, il piccolo Fabio, morto in una sciagura sconcertante.

E poi una coincidenza. Rossa militare di leva è stato anche allievo paracadutista nella Brigata Taurinense e a Viterbo il suo istruttore è stato l’allora brigadiere Oreste Leonardi: anche lui poi vittima delle Br, il 16 marzo 1978 in via Fani.

La storia nella storia

Il prologo, si diceva. A un certo punto, nella vita, arriva il momento di fare i conti con il proprio passato. E sembra pleonastico dirlo, per il lavoro dello storico. In questo caso, però, la ricerca su Rossa muove da un episodio personalissimo del giovane studente Luzzatto. Che a Genova è nato. E che ora negli Usa, dove è professore di Storia moderna europea alla University of Connecticut, sta lavorando a una storia della colonna genovese delle Brigate rosse. Mentre finora mai si era occupato di anni di piombo.

Perché ora questo interesse scientifico? Basta a spiegarlo l’origine genovese? No. C’è dell’altro. Luzzatto lo mette in chiaro fin dal prologo. Ed è una storia nella storia, una vicenda su cui  – si intuisce – Luzzatto deve aver ragionato per anni. Per poi ora, come per ogni ossessione che si rispetti, risolversi a farci finalmente i conti.

La perdita dell’innocenza

Racconta dunque Luzzatto che sabato 27 gennaio 1979 lui volantinava davanti al proprio liceo classico l’Andrea D’Oria, per invitare i compagni a manifestare prendendo parte ai funerali di Rossa. E che a certo punto si è spostato all’ingresso dei professori, da dove entravano i ritardatari.

Lì si è ritrovato nell’androne principale del liceo, dove lo ha colto il preside, che ha ordinato ai bidelli di non farlo più uscire. Il giovane  Luzzatto è rimasto così per tre ore nella portineria, sorvegliato a vista.

E oggi scrive: «La più marginale e grottesca delle congiunture – l’estemporanea vessazione di un dirigente scolastico piccolo piccolo – ha provocato, nell’adolescente che ero, una personalissima perdita dell’innocenza. Quel giorno, la scuola pubblica mi ha impedito di vivere un’esperienza decisiva nella storia della repubblica. Così, più di quarant’anni dopo, mi piace pensare che questo libro valga un po’ come una riparazione alla mia assenza di allora».

Eroe o no

Rossa spia e delatore: così lo definirono le Br, rivendicando l’assassinio. Benché i terroristi avessero pensato “solo” di ferirlo alle gambe, terribile prassi dell’epoca. Ma uno di loro, il capo colonna Riccardo Dura, è tornato sui propri passi e ha esploso il colpo mortale.

E Luzzatto si interroga a lungo sul perché di questo esito, ipotizzando che Rossa, carattere indomabile, possa aver sfidato a parole in quella tragica mattina gli attentatori, magari schernendoli, provocando così la reazione di Dura.

«È Rossa l’eroe dei nostri tempi» ha titolato comunque L’Unità in prima pagina all’indomani della sua morte, ma l’articolo diceva invece: «Guido Rossa, operaio, comunista “da sempre”, non era un eroe. Ce ne sono anche troppi di “eroi” in questo paese».

E dunque: «Individuo d’eccezione, nell’opporsi come un baluardo alla propaganda terroristica? O cittadino come tutti gli altri, nel compiere il proprio dovere di vigilanza democratica?», si chiede Luzzatto, lasciando però correttamente al lettore la risposta. Ma fornendogli tutti i fatti su cui basarla.

L’operaio di domani

I funerali si sono svolti con una folla oceanica (250mila persone) sotto la pioggia battente. In un’atmosfera di tensione, ha preso la parola il segretario della Cgil Luciano Lama.

Che non le ha mandate a dire: «Riconosciamo sinceramente che se il gesto di coraggio civile compiuto dal compagno Rossa non fosse rimasto troppo isolato, se attorno a lui, nel momento più arduo della prova, noi tutti, a cominciare dagli operai dell’Italsider, fossimo stati un solo grande testimone schierato contro il nemico della democrazia, forse la vita di questo nostro compagno non sarebbe stata spezzata».

Nelle pagine finali compaiono le parole commosse di un altro segretario della Cgil, Bruno Trentin, pure lui appassionato di montagna, che lo ha conosciuto e lo ha frequentato. Guido Rossa, ha detto in un’intervista del 1998, «anticipava l’operaio che vogliamo costruire domani». E leggere queste parole oggi, che di operai ce ne sono sempre meno, lascia un po’ il magone.

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