La vegetariana, romanzo del 2007 della scrittrice sudcoreana vincitrice del premio Nobel per la Letteratura 2024, è diventato nell’ultimo anno un caso letterario anche in Italia. Daria Deflorian, attrice italiana, si è confrontata con questo testo
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Finzioni, disponibile sulla app di Domani e in edicola
Nel 2023 ho scritto e diretto in co-creazione con Giulia Scotti, Elogio della vita a rovescio, una riflessione teatrale sulla figura della sorella nei testi di Han Kang. Nell’autunno del 2024 ha debuttato La vegetariana, di cui ho curato la drammaturgia e la regia in collaborazione con Francesca Marciano e in co-creazione con gli interpreti e in cui sono in scena nel ruolo della sorella.
Per chi, come me, conosce i libri precedenti di Hang Kang l’inizio del suo ultimo romanzo sembra quasi auto fiction. Si parla di una scrittrice che ha appena finito un libro su un massacro. Come non pensare a lei dopo aver letto Atti umani? Come non ritrovare tratti di vita vissuta in quella donna che in una Seul assediata dal caldo rincorre sogni come segnalibri di verità? Lo sappiamo - abbiamo cominciato a conoscerla da La vegetariana - che la dimensione autobiografica è ripiegata mille volte sotto le coperte della scrittura, e che come ha dichiarato lei stessa in una intervista, solo White book è una storia biografica, eppure ci trema il cuore all’inizio di Non dico addio e non ci accorgiamo nemmeno, ed è questo il bello, di quando quella donna affaticata e sola diventa sempre più una figura e meno la scrittrice.
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Dopo dieci pagine, comincio ad amare i suoi asterischi. A riconoscere le sue svolte, quella capacità di ricominciare da un’altra parte. La possibilità di raccontare i sogni senza introdurli, senza creare loro una vita attorno. La sua dimestichezza con il tempo, quella capacità in brevi paragrafi di andare avanti e indietro con una precisione chirurgica che sembra non aver paura di nessun disordine apparente nella sequenza dei fatti.
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A pagina 45 mi viene un nodo alla gola, mannaggia a lei che mi fa sempre piangere per cose che non mi aspetto. La figura narrante, Gyeong-ha racconta l’amica e riporta una sua frase ricorrente:
“Io intanto vado avanti”. Parecchie pagine dopo scriverò a matita sul margine bianco: In-seon sono io. Quella tenacia, quel procedere a testa bassa nelle difficoltà. Quel suo sapersi dedicare, quella solitudine. Ha alcuni tratti della sorella nella Vegetariana, ma solo alcuni e riversati in una brocca di complessità che il personaggio del precedente romanzo non conosceva.
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Libri dentro a un libro: la neve. “Che strana la neve, come fa una cosa del genere a scendere dal cielo?”. Questa storia è fatta di neve, credevo di conoscerla essendo nata in montagna, ma è stata Han Kang ad avermi insegnato cos’è la neve, cosa può succedere dentro ad un fiocco di neve. Non sapevo che al centro i fiocchi avessero un granello di polvere. Non voglio nemmeno sapere se è vero, anche se credo di sì, ma ho capito che quel senso di pulito, di candore nell’aria viene da questa piccola magia, la polvere che diventa cristallo. Non sono dettagli, che torni come sale: “era passato un taxi e quella neve finissima si era sparsa come sale nell’aria illuminata dai fari” o che torni come Storia, tutto il libro è ammantato di neve. La Storia irrompe da sogno a sogno, da neve a neve, da infanzia a infanzia. La madre di In-seon, bambina, che scampa al massacro di civili nel 1948 nell’isola di Jeju e che con la sorella maggiore cerca nella neve di riconoscere i familiari uccisi insieme a tutti gli abitanti del villaggio. Morti ammassati a cui la neve copre i lineamenti. Lei, dodici anni, pulisce quei volti con un fazzoletto mentre la sorella rovescia i corpi. “Mi parlò solo e soltanto di quella neve”, ricorda la figlia parlandone all’amica.
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Quelli di Han Kang sono libri oracolo, puoi aprire una pagina a caso e ritrovare il filo dei tuoi pensieri o una questione che ti abita, o un’immagine che hai appena visto ma che ti era sfuggita.
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A pagina 81 ho cerchiato una frase. La dice l’anziana vietnamita, una delle protagoniste dei documentari di In-seon. La sua è una storia di stupri, la sua è una storia di guerra. La sua è una storia di sofferenza, ma nessuno le mi hai chiesto nulla, lei non è nessuno nei libri di Storia, ma ecco che la film-maker venuta dalla Corea del Sud per intervistarla, le chiede se vuole raccontarle qualcosa di quella notte. La frase arriva qui, dopo che la sopravvissuta, “con gli occhi puntati sulla telecamera, con sorprendente concentrazione dice: Va bene. Ora ve lo racconto”. E’ la risposta di qualcuno che da tempo aspettava quell’incontro, “in quel breve assenso era racchiusa tutta la sua vita”. Ho scritto sul mio quaderno: penso che il senso di fare arte abbia a che fare con questa forma di testimonianza, diretta o indiretta, documentaria o finzionale. Non importa.
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Vivere allo stesso tempo nel sogno e nella realtà, riflette la protagonista osservando la doppia visuale di uno dei due meravigliosi coprotagonisti del libro, i due pappagallini, Ama e Ami.
Due mesi fa proprio nei giorni in cui Han Kang vinceva il Nobel e le prove per la versione teatrale de La vegetariana erano agli sgoccioli, un amico mi ha consigliato un libro, Credere allo spirito selvaggio dell’antropologa francese Nastassja Martin. Leggerlo mi ha aiutato a credere nelle presenze fantasmatiche nello spettacolo, quelle umane, quelle dei luoghi, delle ombre. Due scritture lontane, quelle di Martin e Han, ma legate da una capacità di ascolto sempre più indispensabile alla nostra sopravvivenza su questo pianeta. Dice Martin ad un certo punto del libro: “Gli alberi, gli animali, i fiumi, ogni parte del mondo ricorda tutto ciò che facciamo e che diciamo e, a volte, addirittura ciò che sogniamo e che pensiamo. Per questo bisogna stare molto attenti ai pensieri che formuliamo, poiché il mondo non dimentica niente e ciascuno degli elementi che lo compongono vede, sente, sa.”.
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Da quando Gyeong-ha dopo cento pagine cade nella buca durante la tempesta di neve notturna, io cado nella storia. Non ci sono più pensieri, associazioni, io per fortuna smetto di esistere e c’è solo il libro. Divoro pagine. La storia si dipana, ancora capisco poco, ma sobbalzo quando Ama, uno dei due pappagallini torna vivo. Leggo, rileggo. Rileggo ancora. Sta sognando adesso o stava sognando prima? Ha sepolto l’uccellino, ho letto con commozione come gli ha preparato una amorevole sepoltura. Stava sognando prima? No, sta sognando adesso e continuo. A pagina 152 irrompe l’impensato assoluto. Il dialogo tra le due amiche. Io sono In-seon. Lo so dall’inizio. Lei è Monica Piseddu, l’attrice e amica che nello spettacolo interpreta Yeong-hye. Continuiamo il dialogo che facciamo dentro La vegetariana. Io sono la sorella. Le dico: “Come… io? Se faccio così è solo perché ho paura che tu muoia”. E lei: “Perché è così terribile morire?”.
Ora, senza più timori, si parla tra vivi e morti.
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Pagina dopo pagina la vera protagonista di questo “Non dico addio”, quella che non ha voluto, saputo dire mai addio ai suoi cari, a suo fratello, è la madre di In-seon. La sua storia diventa la Storia, diventa per noi che sappiamo poco o nulla della Corea del Sud, la storia dei nostri genitori, dei nostri nonni, la storia del popolo ucraino, palestinese, libanese, siriano. Riga dopo riga, pagina dopo pagina, respiro dopo respiro, sentiamo grazie a queste tre donne, due amiche e una madre quali sono le conseguenze per i vivi delle morti ingiuste, ingiustificate, non raccontate, a cui non è stata data giustizia. A incidere il racconto, fino all’ultima parola, continua ad essere la neve. E anche i due pappagallini. La candela. L’amicizia. L’amore. “Ricordo una sensazione di amore struggente che si insinuava sottopelle che penetrava fino al midollo delle mie ossa e mi stringeva il cuore. E’ stato allora che ho capito. Che dolore terribile sia l’amore”. L’ha scritto lei o l’ho pensato io?
Tutti i libri di Han Kang sono pubblicati in Italia da Adelphi
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