La co-autrice di Comfort, nuovo libro di Ottolenghi, racconta cosa significa per lei comfort food: «Se mi sento un po’ affaticata, l’idea di un tofu freddo, che mi rinfresca, è confortante. Il metodo cinese di conforto consiste nel ripristinare l’equilibrio del corpo, dei sensi e delle emozioni»
Cos’hanno in comune un tofu vellutato, servito freddo, condito con olio di sesamo e cipollotti, e una teglia pasta pasticciata, caldissima, piena di formaggio? Poco o nulla, ma sono entrambi piatti che possono essere considerati comfort food. Una categoria ampia, popolarissima sul web, e a cui lo chef Yotam Ottolenghi ha dedicato il suo ultimo libro, scritto insieme a Verena Lochmuller, Tara Wigley e Helen Goh.
Già co-autrice di Sweet, Goh ha un passato da psicoterapeuta e chef in un ristorante di Melbourne. Da dieci anni lavora con Ottolenghi, oltre a scrivere di cibo per il Sidney Morning Herald, il Guardian e l’Observer. Ma il suo nome è anche legato a una torta che è stata definita “the world’s best chocolate cake” (anche se di recente ha confessato che i suoi figli non la amano: «Troppo intensa, troppo cioccolatosa», spiega). Goh, insomma, è una persona che conosce bene l’intersezione tra sapori, gola e ricordi.
Perché la scelta di scrivere un libro sul comfort food?
È nata mentre Yotam Ottolenghi e io eravamo in viaggio negli Stati Uniti per promuovere il nostro libro, Sweet. E anche se è stato un viaggio fantastico, e ogni sera andavamo a cena in un nuovo ristorante, dopo un po’ di tempo dicevamo entrambi quanto ci mancasse la cucina di casa. E alla fine del viaggio ci siamo detti: «Facciamo un libro sulla cucina di casa».
E così abbiamo iniziato a lavorarci. Ma poi è arrivata la pandemia nel 2020. Le cose si sono interrotte perché sono usciti i libri targati Ottolenghi Test Kitchen (Shelf Love ed Extra Good Things, ndr), che riguardavano la cucina durante la pandemia. Quindi il progetto è stato messo in attesa. Poi, quando siamo usciti dalla pandemia e ho ricominciato a lavorarci, qualcosa non quadrava. Credo perché siamo stati nelle nostre case per così tanto tempo.
All’epoca il mio titolo di lavoro era Il cibo che amiamo. Perché continuavamo a parlare, quando eravamo a cena, del cibo che amiamo e di cui abbiamo nostalgia. Ma quando l’editore ha guardato il lavoro che abbiamo fatto, ha detto: «Sai, questo è proprio comfort food». Ecco come è nato. Poi il modo in cui lavoriamo da Ottolenghi è che c’è una test kitchen. Così, quando ho portato i piatti nella test kitchen e Verena (Lochmuller) li ha cucinati abbiamo iniziato a parlare di come le diverse culture abbiano diversi comfort food e a pensare alla psicologia che c’è dietro, cioè che cosa significa comfort?
Nella prima parte del libro identificate gli elementi comuni del comfort food. Ma poi le ricette sono molto variegate. Cosa differenzia il comfort food malesiano o cinese rispetto alle altre culture rappresentate nel libro, quelle diciamo più riferite all’occidente e a paesi come l’Italia?
Come prima cosa, mi fa un po’ ridere perché abbiamo alcuni colleghi italiani da Ottolenghi, e loro dicono sempre che tutto il cibo è comfort food in Italia.
Quello che credo che sia molto interessante è che in Occidente credo che il comfort food sia spesso visto come qualcosa di un po’ insipido, formaggioso, ricco, quasi malsano, e pieno di sensi di colpa. Il mio background è malese-cinese. I cinesi hanno questa idea dello yin e dello yang in tutto, anche nel cibo. Per cui attribuiscono anche i cibi queste qualità di caldo e freddo. E non si tratta di temperatura, ma di energie: gli alimenti sono impregnati di energie, yin e yang. Quindi se mi sento un po’ affaticata, l’idea di un tofu freddo, che mi rinfresca, è confortante. Il metodo cinese di conforto consiste nel ripristinare l’equilibrio del corpo, dei sensi e delle emozioni.
Ho lottato per avere piatti come i noodles freddi e il tofu freddo, perché in una giornata calda, questo ripristina l’equilibrio per me. E se mi sento stanca, mangiare qualcosa che mi rinfresca mi rilassa, mi tranquillizza. E credo che anche Yotam e le altre autrici, Verena e Tara (Wigley, ndr), visto che ci abbiamo lavorato per un po’ di anni, sono arrivate a capire questa idea del riportare equilibrio.
Quindi, dal punto di vista delle mie origini cinesi, si tratta di una comprensione intrinseca del fatto che il cibo ti ristora, piuttosto che renderti comatosa. Inoltre, dal punto di vista malese, il cibo di quel paese è di solito piuttosto piccante. Quindi, se ho una di quelle giornate in cui mi sento, quando torno a casa, esausta, un curry può davvero ristorarmi. Perciò il punto è questo, sapere che non sempre si tratta di farti addormentare, ma a volte si tratta di volerti ravvivare.
Qual è invece un elemento che è trasversale alle varie culture? Il fattore della memoria, magari, o altro?
Credo che la memoria abbia molto a che fare con il comfort food. E una delle difficoltà nel lavorare a questo libro è che il mio mandato iniziale era essere reale e onesta. E il cibo vero e onesto che mi viene in mente è principalmente asiatico. Poi, quando è collegato a questo, c’è la memoria e la storia, la famiglia e il contesto. Ma quando si testano le ricette, la nostalgia non ha sempre un buon sapore. La nostalgia, a volte, ci dà un’immagine edulcorata, qualcosa che per me ha un buon sapore perché l’ho associata al conforto della mia famiglia. Ma in realtà, presa al di fuori, potrebbe non avere alcun senso.
Il processo di creazione di un libro di Ottolenghi consiste nel prendere come punto di partenza qualcosa che amo, poi lo porto in tavola, Yotam e Verena lo assaggiano, così lo modifichiamo e lo cambiamo. È questo processo che lo trasforma da un piccolo piatto sentimentale della mia infanzia in un libro di Ottolenghi.
Comfort food è una definizione molto attraente e qualcosa che si vede molto anche nella creazione di contenuti social. Quanto vi hanno influenzato i social?
Eravamo consapevolidi ciò che la gente considera comfort food. Ma anche che in qualche modo non si adattava esattamente a ciò che stavamo facendo: credo che non fossimo persone che desideravano il purè di patate o mac&cheese. A me piacciono i maccheroni. Li cucino per i miei figli, forse una volta ogni sei mesi, e a loro piacciono. Ma non è una cosa che cerco. Quindi eravamo consapevoli e, all’inizio, credo di essermi un po’ scusata per questo.
Ma lavorando con Ottolenghi, senza nemmeno dirlo esplicitamente, c’è una richiesta implicita di onestà: non possiamo fare solo quello che pensiamo che la gente voglia, perché non si può mai indovinare quello che la gente vuole. E adesso che il libro è stato pubblicato, mi sorprende molto quello che vedo cucinare dalla gente, quello verso cui gravita.
Ma ci sono alcuni elementi che sono universali: il pollo, il riso, pasta o noodles, le patate. E ovviamente usiamo anche quello per informare le nostre decisioni. Tanto meglio quando è venuto fuori in modo molto genuino e molto organico, come la ricetta di un pollo marinato, il pollo di zia Pauline, che è stato molto popolare. Solo che ora sono nei guai perché zia Pauline è una persona reale e mia madre ha litigato con lei e quindi mia madre è un po’ arrabbiata perché il pollo di zia Pauline è nel libro.
Una delle cose che è stata un po’ difficile è stata che la gente associa Ottolenghi alle verdure. Ma d’altra parte la gente non associa necessariamente le verdure al comfort. Ricordo la prima volta che ho portato un piatto a Yotam, barbabietole arrostite con le noci, e lui mi ha detto: «Che idea di comfort food è questo?» Ma invece le barbabietole cotte così diventano dolci e per me confortanti, con questa salsa vellutata. Ha provato il piatto e ha detto: «Hai ragione». Quindi abbiamo cercato di non farci influenzare troppo.
Qual è un piatto che la sorprende vedere che le persone stanno cucinando da questo libro?
Negli ultimi giorni molte persone hanno preparato la barbabietola. E pensavo: “Oh, mi sono preparata a pensare che avrebbero fatto la domanda che ha fatto per primo Yotam, cioè: di chi è l’idea di comfort? Ma in realtà l’hanno accolta benissimo. È stato davvero fantastico. L’altro, mi dispiace un po’ dirvelo perché siete italiani, ma c’è un piatto che si chiama “Helen’s Bolognese”. È piccante. È un profilo molto diverso da quello del ragù. Molte persone lo hanno preparato e lo hanno apprezzato
Torniamo un po’ alla questione della barbabietola. Tra tutti i libri di Ottolenghi questo è forse il meno flessibile nell’adattare le ricette per vegani e vegetariani. È stata una preoccupazione che vi siete posti?
Quando ho iniziato a lavorare al libro, Yotam mi ha detto: «Dobbiamo renderlo al 70 per cento vegano e vegetariano». Quindi è stato difficile, perché doveva essere un cibo confortante, familiare, ma anche vegano e vegetariano. E ci ho provato con tutte le mie forze, ma quando l’ho portato a Verena, lei non aveva colto questa indicazione come così netta. Quindi quando ha iniziato a fare i test diceva: «Sento che questo piatto ha bisogno di burro» «che ha bisogno di un po’ di carne». E improvvisamente, eravamo molto più entusiasti del libro. Così è nato in modo abbastanza organico. E dopo un po’, credo che abbiamo smesso di pensarci o di pensarci troppo e cercato di farci guidare da ciò che ci piaceva. E anche se c’è un intero capitolo sulle verdure, credo che sia stato un po’ una scelta obbligata. Credo che sia stata una situazione un po’ difficile da gestire.
Da un lato, infatti, i lettori di Ottolenghi probabilmente cercano le verdure. Ma dall’altro è la domanda che mi ha posto Yotam, sulle barbabietole. Se fosse pieno di insalate e verdure croccanti, credo che la gente penserebbe: «Come fa questo libro aparlare di comfort food?» Alla fine abbiamo smesso di fare ipotesi e abbiamo cercato di fare quello che ci piaceva.
Comfort (Giunti 2024, pp. 320, euro 39) è un libro di Yotam Ottolenghi, Helen Goh, Verena Lochmuller e Tara Wigley. Le fotografie sono di Jonathan Lovekin, la traduzione italiana di Sara Porro (con una nota utile per i lettori su dove trovare alcuni ingredienti)
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