In L’innocenza, Palma d’oro per la sceneggiatura nel 2023, Hirokazu Kore-eda dipinge con rara finezza la crudeltà dell’infanzia e la rigidità della società giapponese. Minato, il piccolo protagonista del film sta attraversando un periodo difficile. È vittima di molestie da parte degli alunni o del personale della scuola, o è lui stesso violento? Kore-eda punta sulla suspense con una storia carica di segreti, che mischia i punti di vista, perché come insegna Rashomon, il capolavoro di Akira Kurosawa, la verità non è mai una sola...

Anche se in Italia il suo film si chiama L’innocenza, il titolo originale è Monster, perché?

La sceneggiatura iniziale aveva un altro titolo ancora, poi parlando con il produttore e lo sceneggiatore è uscita fuori l’idea del “mostro” come filo conduttore che riflette quel senso di pericolo, di crudeltà e d’innocenza che permea l’intero racconto. Il film è suddiviso in tre capitoli, ognuno con un punto di vista diverso: quello della madre, quello dell’insegnante e quello dei due bambini. Nei primi due capitoli la visione degli adulti che vedono mostri ovunque è piuttosto depistante per lo spettatore, ma alla fine la verità viene alla luce grazie ai bambini.

Nel suo film, l’innocenza dei protagonisti è messa perennemente in discussione. Che cosa le interessava in questa storia: il lato oscuro dei personaggi o la perdita dell’innocenza?

È una storia in cui si ha l’impressione di vedere cose che in realtà non esistono. In Giappone c’è un proverbio, un’espressione che dice: «Un cuore sospettoso vede un demone nell’oscurità». Tutti i personaggi sono alla ricerca di un “mostro” invisibile, gli adulti sono certi che il “mostro” si aggiri al di fuori di loro stessi, i bambini invece sono convinti che il mostro sia dentro di loro, si sentono sbagliati, e questo è dovuto al sistema di valori trasmesso dagli adulti che impone ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, specialmente riguardo alla mascolinità.

Frasi come «non sei normale» o «dovresti comportarti come un uomo» possono essere violente per un bambino, da adulti non ce ne rendiamo conto ma alcune parole sbagliate alimentano l’intolleranza e portano al bullismo tra i ragazzi.

Si è mai sentito un mostro?

Non in modo consapevole… So che il mio lavoro rischia facilmente di rendermi mostruoso perché un regista è pronto a tutto per fare il miglior film possibile. Hai un tale potere che basta un passo falso con la troupe e il cast per passare dalla parte del mostro. Anche il coronavirus ha complicato molto i rapporti interpersonali. Inoltre la comunicazione sempre più indiretta, soprattutto con i social media, crea delle incomprensioni, una distanza e un isolamento che rende l’altro un estraneo, sempre meno umano, un mostro.

I suoi film parlano spesso della difficoltà di crescere? Che tipo di bambino è stato lei?

Sono stato cresciuto soprattutto da mia madre e dalle mie due sorelle. Mio padre era una figura piuttosto assente e a casa cercavo di non essere un peso. Ero un bambino poco “infantile”, ligio al dovere, molto bravo a scuola, anche se alla fine ero pur sempre un bambino…

Il suo film affronta temi come la paura della propria sessualità, il bullismo, la rigidità del sistema scolastico… Sono argomenti che vengono affrontati nella società giapponese?

Non credo che in Giappone siano ancora argomenti tabù, tant’è vero che molti romanzi o soap opera affrontano questi temi. Detto ciò c’è ancora un enorme conformismo nel mio paese e, per esempio, non credo che ci siano abbastanza lettori o spettatori pronti ad accettare una storia al 100 per cento lgbt.

Uno degli aspetti più negativi della nostra società è che si tende a escludere e isolare chi non è uguale a tutti gli altri, tutto ciò che è considerato anomalo viene rifiutato e allontanato dalla collettività. Ed è questo che ho voluto denunciare. Anche se in questo film è la scuola a essere messa in discussione, ogni istituzione tende a tutelare sé stessa a scapito dei sentimenti personali, della giustizia o della verità.

Nel film c’è l’ultima colonna del compianto Ryuichi Sakamoto. Perché la sua musica era la scelta perfetta per questo film e che cosa ha aggiunto a questa storia?

Trovare la musica giusta per un film è come trovare gli attori giusti durante un casting. Non è una scelta razionale, è una questione di sensazioni e di percezione. A volte l’intuizione mi porta a scegliere determinati strumenti e mi dico: «Voglio un pianoforte in questa scena» oppure «qui ci vuole il suono di una chitarra».

Quando cercavo le location del film nella città di Suwa, ho scoperto una collina da cui si scorge un lago talmente scuro da sembrare un buco nero circondato dalle luci della città. Era una visione piuttosto inquietante e istintivamente ho sentito che le note musicali di Ryuichi Sakamoto sarebbero state perfette su questa immagine. Così ancora prima che il maestro accettasse di comporre la colonna sonora del film, ho iniziato ad ascoltare la sua musica mentre leggevo e lavoravo sulla sceneggiatura, sullo storyboard o anche nella mia stanza d’albergo durante le riprese.

Alcuni dei suoi brani erano diventati a tal punto parte integrante del film che li ho usati in un primo premontaggio. Se Sakamoto non avesse accettato, ero pronto a fare il film senza musica. Fortunatamente ha accettato, ma purtroppo a causa della sua malattia non era più in grado di parlare, così abbiamo iniziato a comunicare attraverso la scrittura: mi mandava una demo, la ascoltavo e gli rispondevo per iscritto.

Così si è creata una corrispondenza epistolare che rimane un’esperienza meravigliosa e un ricordo molto prezioso per me. Nella storia ci sono vari elementi sonori come il vento, l’acqua o il fischio di uno strumento agitato dai bambini, ci sono anche alcuni brani musicali eseguiti dai ragazzi nella sala per la musica della scuola, e Sakamoto non voleva sovrastare questi suoni con la sua musica, così ha dato vita a due tracce musicali che si fondono a pieno con l’atmosfera del film.

Pensando ai bambini di film come Sciuscià o di Ladri di biciclette, quanto l’ha ispirata il cinema italiano, soprattutto quello di De Sica?

Il cinema italiano ha avuto un’enorme influenza su di me, quando ho visto i film di Federico Fellini all’università ho deciso di intraprendere la carriera di regista. Anche De Sica è stato un vero punto di riferimento per me. Quando ho scritto Affari di famiglia, ho creato la famiglia Shibata pensando a Ladri di biciclette, e quando ho chiesto a Haruomi Hosono di comporre la colonna sonora del mio film gli ho chiesto di ispirarsi ai commenti sonori e musicali di alcune opere di Pietro Germi.

Il cinema l’ha aiutata a crescere o è un elisir di eterna giovinezza?

Se non avessi fatto cinema, non sarei riuscito a comunicare e confrontarmi con così tante persone. Quindi sì, il cinema mi ha senza dubbio fatto crescere come essere umano. È un’arte che mi mantiene giovane perché se non avessi fatto il regista mi sarei probabilmente ritrovato a fare un lavoro ripetitivo, e alla lunga mi sarei chiuso in me stesso.

Il cinema invece è diventato parte del mio metabolismo ed è fondamentale per me mantenere la curiosità e lo sguardo aperto sul mondo che ci circonda. Riuscire a comunicare con il grande pubblico e entrare nelle loro vite con i mei film è una vera sfida che, devo ammettere, mi costringe a cercare costantemente spunti per le mie storie: leggo molto, vedo tantissimi film e cerco di lasciarmi sorprendere dalla vita.

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