Fuggiti da un campo profughi in Libano, due cugini palestinesi che sognano la Germania rimangono bloccati nel limbo della clandestinità ad Atene. L’arte del sopravvivere li trascinerà, tra scippi, droghe e marchette, in una spirale incontrollabile che il regista danese-palestinese Mahdi Fleifel racconta con uno stile tagliente e a tratti ironico nel thriller, o forse buddy movie, To a Land unknown.

Unico palestinese presente a Cannes 2024 e possibile protagonista della prossima stagione dei premi cinematografici, il film affronta senza compiacimenti il dramma dei migranti e la malinconia dell’esilio. Figlio di profughi palestinesi, Fleifel conosce bene la tragedia di non avere un posto a cui appartenere. Ne abbiamo parlato durante la 70esima edizione del Taormina Film Festival dove il film ha avuto la sua prima italiana e ha vinto il premio del pubblico.

Quanto è importante oggi che esista un film palestinese?

Sto cercando di trovare il modo giusto per rispondere a questa domanda. Che ne dice di: quanto è importante respirare? Sembra un cliché ma da quando sono nato, sento di appartenere a un popolo sfavorito che in molti cercano di cancellare. L’idea che spesso viene trasmessa è che in realtà non esistiamo, che non abbiamo diritti perché non ci sono mai stati palestinesi in Palestina. Il mantra è che siamo tutti terroristi, arabi rabbiosi e pericolosi come in quelle serie B scadenti con Chuck Norris, pazzi cattivissimi il cui unico obiettivo è terrorizzare il mondo. È questa l’immagine a cui ci dobbiamo confrontare. Sono cresciuto con i film d’azione anni ‘80 che andavo a vedere con mio padre, ed è stato difficile per me, in quei film i cattivi erano spesso degli arabi con lo sguardo folle e la kefiah di Arafat intorno al collo.

Diciamo che Hollywood non ha certo aiutato a scalfire i pregiudizi sugli arabi e soprattutto sui palestinesi nell’immaginario collettivo…

Il paradosso è che ti ritrovi a dover spiegare che anche noi siamo esseri umani, che abbiamo sogni, paure e speranze, che siamo un popolo con famiglie, con una cultura, una musica, una gastronomia e fortunatamente anche con un gran senso dell’umorismo.

Come si sentiva da bambino quando vedeva film Cannon di propaganda come Delta Force, o blockbusters come True Lies di James Cameron?

Provavo un senso di vergogna… da bambino, credi a tutto e accetti le storie che ti propinano sul grande schermo. Anche tu vuoi essere il bravo ragazzo, l’eroe che ovviamente è sempre chiaro e occidentale. Poi vedendo l’antagonista arabo ti accorgi che qualcosa non quadra e ti chiedi: perché sbraita sempre? non riesce a dire una frase per intero… perché ha questo accento grottesco? Questi stereotipi mi ferivano, mi sentivo un outsider che doveva perennemente difendersi e giustificarsi con gli altri, volevo piacere ai miei compagni e mi ritrovavo a dire: sai non siamo tutti cattivi, nessuno mi ha mai insegnato a odiare. Cercavo di spiegare che la violenza non fa altro che alimentarne altra, che chi sopravvive nella disperazione, sotto occupazione, spesso non ha altra scelta. Oggi cercano di far passare tutti i palestinesi per terroristi di Hamas, anche i bambini che vengono tirati fuori dalle macerie e fatti a pezzi lo sono. Non sono umani, sono solo Hamas.

Crede che il cinema possa essere un’arma contro l’attuale rischio di disumanizzazione dei palestinesi?

Naturalmente, anche se è complicato, la mia unica possibilità di combattere gli stereotipi è di raccontare una storia che possa toccare e aprire gli occhi al maggior numero di spettatori. Conosco un grande distributore di cinema d’essai in Danimarca, che passa il suo tempo sui social a difendere la causa palestinese ma non ha il coraggio di proiettare il mio film nelle sue sale, dice che non si sente sicuro…

È stato difficile produrre il suo film?

Immaginate quanto sia complicato fare un film palestinese: non c’è nessuna infrastruttura, nessun sostegno nazionale al cinema, sei alla mercé di finanziatori europei, che si aspettano che le tue storie aderiscano all’immagine stereotipata che hanno di te e che possono vendere meglio. Vogliono il Marocco sì, ma quello dipinto da Nabil Ayouch, non vogliono la Turchia, vogliono Nuri Bilge Ceylan, e per la Palestina si aspettano a un racconto alla Elia Suleiman, un autore brillante che ha scelto la chiave più digeribile della commedia per parlare dell’occupazione. Questa è la mia unica arma per combattere, per questo ho cercato finanziamenti ovunque e ho fatto di tutto per chiudere in tempi record il film per poterlo presentare a Cannes.

Può sembrare un paradosso ma forse l’urgenza, le restrizioni di budget e i tempi stretti le hanno dato una maggiore spinta creativa?

Sì, è un po’ come quando William Friedkin o Francis Coppola, dicevano che davano il meglio di sé con una pistola puntata alla tempia. Sento di avere lo stesso tipo di energia. Naturalmente, qualsiasi medico lo sconsiglierebbe: notti insonni, stress, e avendo investito anche molti dei miei risparmi in questo film, non potevo fallire. Forse questo sarà il mio primo e ultimo film di finzione e tornerò a girare documentari.

Perché dopo tanti documentari ha deciso di girare il suo primo film di finzione?

Il documentario è stato un ripiego per me, dopo la scuola di cinema mi sentivo molto frustrato dal sistema, avevo bisogno di raccontare storie ma non avendo le giuste risorse economiche mi sono lanciato nel documentario. È stata una scuola pazzesca che mi ha permesso di sperimentare senza il peso del set. Hitchcock diceva: «Nella finzione il regista è Dio, nel documentario Dio è il regista».

Ora, non dico che mi sento Dio ma mi sento in una via di mezzo. Il documentario mi ha davvero insegnato a fiutare il falso, o a sentire se la cinepresa interferisce troppo nella scena mettendo la regia in primo piano. La regia deve essere invisibile, se superi una linea sottile inizi a metterti in mostra e rischi di perdere la verità.

L’identità palestinese sembra in perenne attacco, quanto è forte questa questione esistenziale nella sua storia personale?

Mi ritengo estremamente privilegiato, sono nato a Dubai e sono cresciuto in Danimarca, non ci sono posti di blocco nella mia vita, né soldati che mi puntano i loro fucili in faccia, non sento il rumore degli elicotteri giorno e notte, nessuno mi terrorizza facendo irruzione in casa mia senza motivo, né mi fa odiare la vita tanto da non voler più vivere. Ormai l’orrore del conflitto in Israele è ingiustificabile, il massacro dei civili palestinesi è alla luce del giorno, di fronte a tutti… ora, temo veramente il peggio con la probabile rielezione di Trump.

Il suo film non è certamente tenero con la Siria e il Libano. Che cosa pensa dell’atteggiamento dei Paesi arabi verso i palestinesi? Sono ipocriti come l’Occidente?

Sono i peggiori. La verità? Siamo stati fregati da tutti… in Libano anche i palestinesi naturalizzati sono esclusi dalla società, c’è un vero razzismo nei nostri confronti, non ci vogliono e non sanno come sbarazzarsi di noi. Al diavolo anche i siriani e gli afgani, la verità è che abbiamo solo noi stessi.

Credi che la creazione di due stati indipendenti in Israele e Palestina sia ancora possibile?

Non mi interessa avere un esercito, né una bandiera, quello che mi interessa è la giustizia: pari diritti per tutti, dal fiume al mare. Le persone a Gaza e in Cisgiordania vogliono soltanto vivere e non avere più a che fare con un governo israeliano avido e insaziabile che vuole solo arraffare e espandersi. La loro idea è quella di costruire la grande Israele, la biblica terra promessa.

Vogliono inghiottire tutto, se ci pensa, Israele è l’unico paese al mondo che non ha confini definiti. È un progetto coloniale completamente sponsorizzato dall’Occidente. Pensate che una volta che avranno ripulito Gaza e la Cisgiordania dai palestinesi ne avranno abbastanza? Israele è condannata a una vita di eterna paranoia e di senso di colpa perché, citando lo scrittore premio Nobel islandese Haldor Laxness: «Quel che hai rubato non potrà mai essere tuo».

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