Marcos Uzal è alla guida della rivista della Nouvelle Vague nei tempi delle piattaforme e della uniformità. La politica degli autori di Truffaut o Godard va riletta per salvare il cinema dall’imperativo dell’algoritmo. L’intervista
In francese il regista è il réalisateur, il realizzatore. Chi realizza il cinema è anche colui, o colei, che prima lo ha pensato, e che dopo lo criticherà. È questa del resto l’idea cardine dei Cahiers du cinéma, che infatti non sono una rivista di cinema; sono cinema. Da qui sono transitati i più grandi cineasti, Éric Rohmer, Claude Chabrol, François Truffaut, Jean-Luc Godard. Qui è stata concepita la Nouvelle Vague. Qui la critica si traduce in immagine in movimento, il pensiero è realizzazione, e viceversa.
«Scrivere è già fare cinema»: lo ha dichiarato senza mezzi termini, Jean-Luc Godard, nel 1962, quando Jean Collet, Michel Delahaye, Jean-André Fiescgìhi, André Labarthe e Bernard Tavernier lo hanno intervistato per il numero speciale dei Cahiers dedicato alla Nouvelle Vague. «Ai Cahiers ci consideravamo tutti come dei futuri registi. Frequentare i cineclub era già pensare il cinema e pensare al cinema. Il solo critico che sia stato completamente tale è André Bazin. Come critico, io mi consideravo già un cineasta». La storia della rivista che è cinema comincia nel 1951, e arriva fino al numero 800 di questo luglio e agosto. Oggi il direttore è Marcos Uzal; com’era inevitabile, è un critico, ed è un réalisateur.
L’ottocentesimo numero porta il titolo Refaire le monde, rifare il mondo. Per i Cahiers oggi c’è ancora una funzione politica del cinema, critica compresa?
Sì. Altrimenti il cinema non sarebbe che un divertissement senza alcuna relazione con il mondo. Il carattere politico di un film non si esaurisce nel soggetto scelto; passa per il modo di fare film. Nel numero 800 ad esempio si tratta anche la questione ecologica, ma non è l’attualità di un tema a rendere di per sé politico un film. Don’t look up! è un buon esempio di cinema militante: usa la commedia per dire cose violente. La funzione “politica” del cinema è essenziale e definisce anche il nostro posizionamento critico: il nostro campo di interesse è il cinema che sta nel mondo, non isolato dal resto. Intendiamo il cinema come qualcosa che agisce sul mondo. L’espressione “rifare il mondo” allude alla funzione del cinema: quando il cinema filma la realtà, al contempo la pensa e la ricostruisce; con tutto il corollario politico della questione.
Chi sono oggi gli autori che fanno politicamente cinema?
Ci sono ottimi esempi proprio tra i registi che abbiamo coinvolto per il numero 800. Marco Bellocchio, ad esempio, è estremamente impegnato politicamente e ha un ruolo importante in Italia. Citerei anche Lucrecia Martel, cineasta argentina. Per molti degli autori che compaiono sull’800 la politica è un elemento essenziale.
Il numero 800 è pieno di italiani…
Assolutamente! Oltre a Bellocchio, c’è Nanni Moretti, c’è Alice Rohrwacher…
Nell’ultimo film di Moretti, Il sol dell’avvenire, c’è un dialogo tra il protagonista e i produttori di Netflix, nel quale il regista suggerisce che sia in corso una sorta di omologazione del cinema condotta dalle piattaforme. La sintassi stessa del linguaggio cinematografico subisce una omogeneizzazione. Quella di Moretti è una critica che lei condivide?
Sì, certo, c’è una sorta di uniformizzazione delle forme direttive, che passa per le piattaforme. Qualche mese fa abbiamo pubblicato il numero La politica delle piattaforme proprio per segnalare il contrasto rispetto alla “politica degli autori” che contraddistingue i Cahiers. Non dico che Netflix non produca anche lavori interessanti, ma la tendenza generale è quella di inseguire l’algoritmo e creare contenuti per certi versi impersonali. Quella scena del film di Moretti mi ha divertito.
Eppure internet in sé offre la potenzialità di rivolgersi alle nicchie, piccole magari, ma con esigenze variegate. Non è un paradosso che lo streaming abbia finito per compromettere la biodiversità filmica?
Netflix ha comprato cataloghi interessanti, vi si possono trovare film scandinavi, o ad esempio vi si trova Raffaello Matarrazzo. Ma bisogna andare a cercarseli. La loro visione non viene incoraggiata; viene messo avanti ciò che è maggioritario.
In relazione alle piattaforme, i festival hanno posture differenti: più aperta Venezia, meno Cannes. Chi sbaglia?
L’approccio di Cannes è molto legato al contesto francese, dove un film prodotto da piattaforma non può andare in sala, e l’idea del festival è di non presentare pellicole che non vanno in sala. Questa postura diventa sempre più complicata da mantenere, perché aumentano i film e gli autori interessanti che passano da piattaforme; penso al film Roma. L’ultimo di Martin Scorsese a Cannes è andato, anche se fuori competizione: non si potrà fare altrimenti che fare i conti col fatto che le piattaforme sono mezzi di produzione importanti anche per gli autori. Poco a poco Cannes dovrà cambiare le sue politiche.
Le piattaforme, dopo aver messo alle strette il cinema, ora vestono i panni di salvatrici. In tempi di pandemia in Italia abbiamo visto sale svuotate. In Francia pare siano più frequentate.
In Francia il lockdown ha portato difficoltà ma poi si è tornati nelle sale. Da noi vige ancora una distinzione molto netta tra sale e piattaforma, sia perché le due pratiche sono intese come ben distinte, sia perché ci sono limitazioni di legge che tengono le piattaforme alla larga dalle sale cinematografiche.
In Italia si può vedere in sala un film prodotto da Netflix e che subito dopo va su piattaforma. C’è una differenza politica tra i due modelli. Quale preferisce?
Il modello francese è ciò che ha permesso al cinema francese di sopravvivere. Una quota del biglietto viene versala al Centre national du cinéma, che la reinveste per la produzione di nuovi film. Andare in sala significa anche partecipare a un circuito che finanzia il cinema. Questa legge in qualche modo frena la distribuzione per piattaforma.
Sul numero 95 dei Cahiers – era il 1959 – Jacques Rivette a proposito de I 400 colpi di Truffaut scrive che «la cosa più preziosa al cinema, e la più fragile, è una certa purezza dello sguardo, un’innocenza della macchina da presa». Nell’era della pornografia delle immagini e del bombardamento di video sui social, quella verginità di sguardo è ancora possibile?
Il cinema è diverso da altri tipi di immagine, da quella della pubblicità o di TikTok. È una questione di sguardo, appunto: esiste un regard singulier, uno sguardo unico del cinema, qualcosa di mai visto prima, di personale. In un mondo oberato di immagini il cinema ha la sua maniera di resistere: è il lavoro del cineasta, essere più che soltanto l’immagine, confrontarsi con la realtà. Questa è l’arte.
Arrivati al numero 800 come tenete in vita l’eredità della Nouvelle Vague? All’orizzonte si vedono dei giovani Godard?
Non siamo dei nostalgici, né dei puri ereditieri, ma portiamo la storia dei Cahiers come una memoria e una coscienza condivise. Tuttora i grandi cineasti passano da qui, e tuttora c’è un rapporto forte tra critica e pratica. Gli anni della Nouvelle Vague hanno rappresentato l’epoca più ricca della storia del cinema. La nostra è senz’altro più povera, ma bisogna continuare a cercare, anche nella produzione non ufficiale, nei festival, tra i giovani cineasti. E a quel punto si noterà che le cose non hanno smesso di accadere.
Nel 2020 i Cahiers sono stati acquistati da imprenditori e produttori cinematografici, il che ha spinto buona parte della redazione ad andarsene per protesta. Lei ha assunto la direzione proprio allora. Oggi far sopravvivere una rivista significa scendere a compromessi?
La rivista era in vendita da tempo e c’era un rischio da sventare; è servita una pletora di attori per poterlo fare, e a quel punto io ho dovuto garantire che non ci fossero pressioni. Va detto che non esistono proprietari maggioritari, i Cahiers appartengono a molti, e a tutti in piccola parte. Ciò garantisce la nostra indipendenza.
© Riproduzione riservata