La storia che racconta - una storia vera - è curiosa e rivelatrice; l’esperimento letterario tra finzione e nonficiton è riuscito, vero, affascinante, elegante; infine, ha una vicenda editoriale sintomatica dei nostri tempi, che l’ha portato dai primi rifiuti della miope editoria americana fino a vincere il premio Pulitzer: I Netanyahu presenta così tanti motivi di interesse che mi viene difficile scriverne.

I protagonisti

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Come dice il sottotitolo, il libro racconta «un episodio minore e in fin dei conti trascurabile della storia di una famiglia illustre». L’episodio è accaduto in una cittadina universitaria americana nell’inverno in cui cominciano gli anni Sessanta, e la famiglia illustre sono ovviamente i Netanyahu. Dei cinque, quello che conosciamo meglio, e che nelle pagine di Joshua Cohen troviamo adolescente e fuori di testa, è il futuro primo ministro israeliano Bibi Netanyahu; ma c’è anche il fratello Yoni, futuro martire dell’esercito, e il padre, Benzion, importante figura del cosiddetto sionismo revisionista.

Andiamo con ordine. All’inizio degli anni Sessanta i Netanyahu girano l’America su una sgangherata macchina in prestito perché Benzion trovi un posto di lavoro in qualche college grazie ai suoi studi sul medioevo, e in particolare sul trattamento degli ebrei durante l’inquisizione spagnola e portoghese: studi che però sono, soprattutto, il fondamento della sua visione politica. Il piccolo college di benpensanti che vuole fargli un colloquio è preoccupato dal potenziale ingaggio di una figura tanto controversa.

A Ruben Blum, professore di storia ed ebreo assimilato alla cultura americana, è richiesto dal rettore, con malcelato razzismo, di fare da mediatore per l’incontro con Netanyahu: saranno Ruben, sua moglie Edith e la figlia Jude, anima in pena che fa tornare in mente la figlia giainista dello Svedese in Pastorale Americana di Roth, a dover accogliere e far integrare Benzion Netanyahu e la famiglia che a sorpresa si è portato dietro.

L’impatto caotico di questa famiglia di viaggiatori transculturali, con valori e modi spiazzanti, sugli americanizzati Blum crea l’impasto comico che tira avanti la vicenda raccontata. La commedia serve soprattutto a creare un tessuto connettivo tra il passato e il futuro di quel momento: a raccontare alcuni tra i ragionamenti e le filosofie che hanno aiutato a concepire Israele come stato moderno, come utopia realizzata, e insieme a proiettarci nella storia futura di Israele.  

Storia che vedrà Yoni morire militare nel 1976 durante lo stallo di Entebbe intorno alla liberazione di oltre cento ostaggi israeliani, e che vedrà Bibi diventare il primo primo ministro israeliano nato sul suolo («Il suo regno, segnato dalla costruzione di muri e insediamenti, e dalla normalizzazione dell’occupazione e della violenza di stato contro i palestinesi, rappresenta il trionfo finale della visione revisionista, un tempo caduta in disgrazia, promulgata da suo padre»): due figure ormai storicizzate, che Cohen ci fa vedere adolescenti alle prese con i telefilm western, la tv a colori e il sesso.

Il vero Blum 

Ma i Netanyahu, pur prendendosi il titolo del libro, arrivano sulla scena solo intorno alla metà di questo breve romanzo. Mentre leggevo le prime cento pagine, che si concentrano su Blum e i suoi rapporti con l’America, mi domandavo come mai, nel proporre un libro con un titolo tanto forte, e con un sottotitolo che prometteva una storia vera, Cohen, scrittore geniale che fa sempre le cose per motivi precisi, indugiasse tanto su un personaggio che gli apparati del libro mi lasciavano ritenere inventato o quanto meno non importante per la storia.

Non so perché, poco prima di leggere dell’arrivo in città dei Netanyahu, ho preso e saltato centocinquanta pagine per leggere il meta-capitolo finale, “Ringraziamenti e un ringraziamento speciale”, e lì ho scoperto che Ruben Blum è ispirato al grande critico letterario Harold Bloom. Sapevo da Cohen del loro rapporto molto stretto, e avevo letto la dedica a Bloom in apertura del romanzo, ma l’edizione che avevo letto, quella del suo ottimo editore inglese, Fitzcarraldo (che pubblica anche Claudia Durastanti, la traduttrice italiana di tutti i libri di Cohen), non diceva nulla di Bloom.

Visto che al momento nella letteratura alta girano libri molto più beverini di questo, libri dove le premesse, le tesi e i punti di vista sono chiarissimi e chi legge può trangugiare senza più vivere le incertezze e le lentezze e la noia che in un tempo prima di Netflix e degli algoritmi caratterizzavano l’esperienza della lettura, ho voluto evitare che la ricchezza di livelli di I Netanyahu, e i tempi dilatati che si prende per rivelare le sue carte, portassero danno al suo autore spingendo qualcuno a posare il libro a metà: mi sono preso la responsabilità di questo spoiler.

Il libro parla insomma di Harold Bloom, e quindi dell’incontro casuale e completamente assurdo fra due menti eccezionali. Grazie a questo incontro, ricostruito da Cohen dai racconti dettagliati che gli ha fatto Bloom in persona, possiamo tornare a capire le prospettive esistenziali e politiche di quegli intellettuali ebrei europei che a metà del Novecento, in fuga dall’Europa, avevano davanti queste due idee radicali di nazione che sono Israele e Stati Uniti d’America.

Cohen però non ha voluto usare Bloom come personaggio, e così ha costruito la famiglia Blum. Quando ho scoperto che Ruben era Bloom, il fascino e il gusto che mi stava dando la lettura è raddoppiato. Perché se da una parte abbiamo Benzion, che Cohen mette in scena con una ricchezza di registri invidiabile, prendendo immagino dai documenti storici e ricostruendo una forza retorica trascinante; dall’altra, invece, il personaggio di Blum ci fa un doppio regalo: oltre a essere un personaggio completamente letterario costruito, proprio in omaggio a Bloom, con tanti pezzi di autori amati dal critico (Cohen infatti, nel mostrarci l’assimilazione di un intellettuale ebreo e della sua famiglia nell’America del benessere, ci precipita in un pastiche di Isaac Singer, Bernard Malamud, Saul Bellow, Philip Roth, tutti i migliori…), ci regala anche il piacere di domandarci cosa, di Blum, sia preso da Bloom.

Il libro è dunque un omaggio totale al critico scomparso: Cohen mescola le ceneri di Harold Bloom con l’inchiostro della letteratura che il maestro ha amato e studiato.

La cosa incredibile è che nel fare questo pastiche Cohen non perde un grammo della personalità mostrata nei romanzi precedenti (su tutti va sempre ricordato l’essenziale Libro dei numeri, anche questo tradotto eroicamente da Durastanti).

Dimostrando di essere dotato di personalità assoluta sia quando scrive del più esoterico mondo di internet sia quando scrive di sionismo revisionista e di assimilazione culturale nel Novecento, per me Cohen si pone al momento come il più complesso e interessante scrittore americano vivente non anziano.

Libri difficili 

E qui arriviamo alla vicenda editoriale cui accennavo all’inizio. Pur essendosi già dimostrato scrittore fondamentale, i grandi editori non se la sono sentita di pubblicare questo libro. E anche tanti editori indipendenti apparentemente perfetti per lui. Alcuni critici e scrittori americani del suo giro mi hanno raccontato la vicenda e ho sentito dire una cosa che mi ha spezzato il cuore: un editore tra i più grandi gli avrebbe detto che non lo pubblicava perché era derivativo. È assurdo. Se un grande editore oggi non capisce la differenza tra un libro derivativo e un libro che cerca di fare i conti con la storia letteraria – che cerca di entrare, come si diceva da noi, “nella casa della letteratura”, invece che semplicemente nei consumi culturali – è una vera tristezza.

Il libro alla fine è uscito con l’editore della New York Review of Books, noto soprattutto per i suoi classici e repêchages, e col senno di poi ci sta che un libro così viva già come una sorta di libro postumo. A questo punto è un omaggio alla sua iperletterarietà. Il fatto è che Cohen, vincendo il Pulitzer, è scampato alla strana damnatio memoriae che la grande editoria aveva provato a infliggergli per essere colpevolmente innamorato della letteratura.

Il problema della reputazione è risolto. Ora c’è da capire se c’è ancora modo per leggere libri difficili che non vanno giù tutto d’un fiato: se esiste un mondo al di là dei consumi culturali, al di là dei consumi.

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