- Ci si domanda quale sia il segreto della longevità di un autore come Isaac B. Singer. Le risposte sono tante. La principale è che il nocciolo del suo problema è alla base di interrogativi universali.
- La coscienza, per Singer, è un ring in costante attività, il motore di tutte le nevrosi moderne. Potrebbe essere, in questo senso, il grande erede novecentesco di Dostoevskij. Ma la questione non è così semplice.
- Per Singer la questione di Dio è un armamentario tecnico da usare fondamentalmente in senso umoristico. Singer è un autore comico e insieme convintamente drammatico; se avesse scritto per il teatro sarebbe stato il Pirandello americano.
Un ex attore in disarmo, un’anziana emigrata a New York costretta a passare la notte fuori casa perché ha rotto la chiave nella serratura, o l’enigmatica frequentatrice di una tavola calda, si chiama Esther, che un bel giorno svanisce e poi ricompare.
Così come l’ex allieva, oggi dottoressa di fama, che si ripresenta dinnanzi al professore in visita in Israele. E poi, nelle sue infinite variazioni, il personaggio ricorrente: lo scrittore yiddish che a New York campa scrivendo a puntate sul giornale della sua comunità, vive solo, finché un suo racconto attrae una coppia di teatranti che vogliono metterlo in scena, ma non se ne fa nulla. Poi svaniscono, e quando ricompaiono la storia prende pieghe inaspettate.
Ecco, grossomodo, il campionario umano sul quale Isaac B. Singer ha composto una delle sue maggiori raccolte di racconti, Un amico di Kafka, che torna ora per Adelphi con una nuova traduzione di Katia Bagnoli e la cura di Elisabetta Zevi (come tutte le riedizioni adelphiane dello scrittore).
Una raccolta emblematica dell’autore nato in Polonia nel 1904, Premio Nobel 1978, e scomparso nel 1991 a Miami. In questi racconti c’è tutta la sua varia umanità e la sua problematica di fondo. Quale? La solitudine dell’uomo di fronte a sé stesso. E insieme a questa solitudine una sfrenata, a tratti mistica, a tratti oscena, vitalità.
Ci si domanda quale sia il segreto della longevità di un autore come Isaac B. Singer. Le risposte sono tante. La principale è che il nocciolo del suo problema è alla base di interrogativi universali. Nei racconti di Singer non esistono eroi, e forse nemmeno antieroi. Esiste la Storia e il peso che esercita sulla vita dei singoli.
I personaggi di Singer sono sempre profughi alla riconquista di uno spazio dove esistere. Nello stesso tempo, il profugo singeriano sa che non c’è davvero un luogo dove riparare. È un profugo metafisico, non geografico. I luoghi sono spazi immateriali; la memoria, innanzitutto.
E poi la propria coscienza, dove si svolge la battaglia campale tra desiderio e dannazione. La coscienza, per Singer, è un ring in costante attività, il motore di tutte le nevrosi moderne. Potrebbe essere, in questo senso, il grande erede novecentesco di Dostoevskij. Ma la questione non è così semplice.
Il figlio del rabbino
Figlio del rabbino chassidico di un villaggio della Polonia orientale che sarà spazzata via da Hitler – insieme alla quasi totalità degli ebrei che l’abitavano – si potrebbe pensare alla sua come a una letteratura di impianto religioso (egli stesso studiò al seminario rabbinico), infarcita com’è di dialettica teologica. Invece non è così.
Per Singer la questione di Dio è un armamentario tecnico da usare fondamentalmente in senso umoristico. Singer è un autore comico e insieme convintamente drammatico; se avesse scritto per il teatro sarebbe stato il Pirandello americano.
Molti anni dopo, l’impronta di Singer si ritroverà quasi intatta nelle grandi scene/battaglie familiari di Woody Allen e in certi suoi personaggi (Harry a pezzi, ad esempio).
Negli anni Trenta, seguendo il fratello Israel anch’egli scrittore, Isaac scappa dalla Polonia prima del disastro e diventa, a tutti gli effetti, cittadino statunitense. E non solo in senso burocratico, ma in primo luogo in senso artistico.
Anche in Un amico di Kafka, molti racconti da un lato ci riportano alla Varsavia ante-guerra, ci riportano Alla corte di mio padre, com’era intitolata una famosa silloge in cui Singer narrava l’interno familiare dove si cucinava e si celebrava la legge rabbinica; dall’altro lato – e sono sempre i più accattivanti, se vogliamo conturbanti – abbiamo i racconti della diaspora, quello scenario newyorchese di profughi appunto, emigrati, scampati, gente che si è rifatta i nomi, il colore dei capelli, gli abiti, le abitudini, e che molte volte è solo la lingua – lo yiddish – a tenere uniti, a fare per loro da carta d’identità.
Singer stesso, come il suo personaggio più ricorrente – che di fatto è autobiografico – non ha mai abbandonato la sua lingua madre, lo yiddish, quel sonoro dialetto degli ebrei dell’Europa orientale dove si mischiano il tedesco, l’ebraico e una miscela di microidiomi locali pieni di inflessioni e di formule intraducibili.
Lingua come specchio di una civiltà che il nazismo ha tentato di cancellare e invece è sopravvissuta, tenacemente, grazie all’opera degli scrittori e dei poeti, e dei musicisti (il klezmer ne è il corrispettivo musicale, remixato anche da molti jazzisti ebrei, basti pensare alla pronuncia popolare e idiomatica del clarinetto di Benny Goodman).
Tra Dostoevskij e Cechov
Lo scrittore viveva in un appartamento dell’Upper West Side di Manhattan, scriveva in yiddish, revisionava insieme alla moglie Alma i racconti che uscivano regolarmente sulle pagine del The Jewish Daily Forward e poi li faceva tradurre in inglese da un nipote. Quasi tutte le traduzioni estere prendono avvio da quelle versioni inglesi, che lui stesso controllava.
La sua carriera parte in sordina, quasi clandestinamente, spesso sotto pseudonimi. Il fratello, scrittore già abbastanza noto nel loro ambiente, muore improvvisamente nel 1944 dopo aver prodotto una lunga serie di opere che però non hanno la scintilla geniale del fratello minore.
Eppure, Singer non si stancava di ripetere – forse con una modestia un tantino forzata – che il vero scrittore era il fratello, non lui. Quando però cominciano ad apparire, a puntate, le storie de La famiglia Moskat, Shosha, Il mago di Lublino, i racconti di La luna e la follia, comincia a emergere il profilo di un narratore universale.
C’è sullo sfondo Dostoevskij, certo, ma c’è anche il sublime orecchio di Cechov per l’assurdo, e c’è il senso drammatico di Strindberg.
È da Cechov che gli viene il senso del comico, un comico che risulta proprio dalla vitalità (e dall’innocenza) con cui i suoi personaggi si scontrano con la tragedia della storia, tradotta in figure perennemente in conflitto con il proprio passato, le proprie decisioni, il senso di inadeguatezza, lo shock culturale, il desiderio di sopravvivere e di amare.
Quella di Singer è una letteratura della sete di vita, rappresentata in una gamma vastissima di sfumature – la tenerezza, la menzogna, il sesso, l’utopia delle promesse eterne, e l’inevitabile caduta a terra (Chaplin e Buster Keaton non gli erano, probabilmente, così sconosciuti).
Il mondo in una tavola calda
Singer ha una tecnica formidabile sui personaggi, che scolpisce a tocchi graduali, contrastanti, in modo da non lasciarli mai finiti, mai risolti e confezionati.
In questi racconti ne abbiamo innumerevoli esempi, ma è in quello intitolato Shloimele che ne abbiamo un campionario nelle giovani attrici – Sylvia, Bonnie, Beatrice – che si susseguono nella vita di un fallito manager teatrale impegnato a inseguire un drammaturgo anche lui fallito (la voce narrante) – che ha scritto il racconto di una ragazza che si traveste da uomo per frequentare la scuola talmudica.
Qualcuno avrà riconosciuto, forse, la trama di Yentl, il celebre film diretto da Barbara Streisand nel 1983 e tratto da un racconto singeriano della raccolta Gimpel l’idiota. Qui invece la storia è rappresentata da Singer come una finzione, infatti il protagonista è Shloimele, l’ex-attore, regista, produttore che alla fine, quella storia, non la riesce a mettere in scena.
Pirandellianamente, abbiamo dei personaggi ma non abbiamo i loro autori: «I nostri incontri, per quanto casuali, cominciarono a mettermi a disagio. Io non avevo un copione, Shloimele non aveva un teatro».
Eppure, il drammaturgo che non crede nel suo copione e il teatrante che non ha mai trovato un palco né una protagonista che gli andasse a genio, continuano a incrociarsi nella tavola calda di una zona caotica di New York, mentre gli anni passano inesorabili.
La tavola calda – con le sue pietanze che rimandano a sapori di terre perdute, i suoi odori, il senso di provvisorietà – è il grande palcoscenico di Singer. D’altra parte, quando il comitato del Nobel chiamò per annunciare il premio, rispose la moglie: lo scrittore non c’era, era alla tavola calda.
Da quell’angolo anonimo di mondo Isaac Singer ha raccontato come forse a nessuno è riuscito uno dei grandi dilemmi del Novecento. Come si sopravvive all’orrore?
Tra il drammaturgo e Shloimele è cresciuto un fantasma: lo spettacolo che hanno sognato e che non sono riusciti a realizzare. Non sono riusciti o non hanno voluto? C’è, con ogni probabilità, anche Freud tra i modelli letterari dello scrittore, ma questo viene in mente solo dopo, quando si è girata l’ultima pagina.
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