Quando, nei primi anni Settanta, uno studente del college di nome Georgie McLeod decise di raccontare a Steve, un suo compagno, di un’esperienza vissuta con alcuni suoi amici quando aveva tredici anni, in un paesino disperso nel Midwest americano e mai meglio identificato, non poteva sapere che quella storia sarebbe diventata uno dei quattro tasselli che avrebbero composto un’opera destinata alla grandezza letteraria. Di più: non poteva sospettare che proprio il suo racconto preadolescenziale avrebbe segnato le vite di generazioni di ragazzini per i decenni a venire.

George e i suoi amici avevano seguito le rotaie che si addentravano nei boschi fitti, campeggiando una notte nella natura selvaggia all’insaputa dei loro genitori, per andare a vedere il cadavere di un cane investito da un treno. Tutto qui: non c’erano bulli minacciosi, non c’erano pistole rubate, non c’erano velleità da romanzieri in vista e non c’erano tredicenni travolti e uccisi. Eppure, Steve ci vide del potenziale.

Quel “racconto d’autunno”, poi intitolato Il corpo, divenne parte della raccolta che avrebbe cambiato la percezione di Stephen King di fronte al panorama letterario mondiale: Stagioni Diverse, ora fuori in una nuova edizione per Sperling&Kupfer, con nuove traduzioni a cura di Andrea Cassini, Stefano Giorgianni, Loredana Lipperini e Simona Vinci.

Racconti della buonanotte

AP

King scrisse Il corpo appena ebbe finita la stesura di Le notti di Salem, nel 1975. Fu il primo di quelli che avrebbe definito “racconti della buonanotte” perché, per non interrompere il flusso creativo che lo teneva legato ai romanzi ai quali stava lavorando, se li ripeteva in testa ogni sera prima di dormire, cercando di fissare nella mente più particolari possibili. Stette in un cassetto fino al 1980, quando lo unì ad altri due racconti della buonanotte, intitolati Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank e L’allievo, e presentò la raccolta al suo editor. Erano buoni, ottimi col senno di poi, ma non erano horror e il puro terrore era quanto ci si aspettava da King a quel punto.

Ci volle più di uno sforzo per convincere l’editore a pubblicarli ma, nel 1982, il libro vide la luce. Oltre alle prime tre novelle «Troppo lunghe per essere brevi e troppo brevi per essere lunghe», come le definisce l’autore nella prefazione, in Stagioni diverse ne compare una quarta, voluta dall’editor per poter associare ogni racconto a una stagione: Il metodo di respirazione, l’unica con risvolti fantastici, orrorifici, paurosi.

Questo libro che ha rischiato di non esistere mai – vuoi per una falla nella memoria di King, vuoi per il timore degli editori – incarna, a tutti gli effetti, il coronamento e la consacrazione del pensiero kinghiano già dall’esergo: «È la storia, non colui che la racconta».

Esplorare la memoria

Una scena del film Le ali della libertà (foto AP)

Il King di Stagioni diverse è un autore completo, che si misura con la vastità infinita di una mente estremamente fertile; in grado di uscire dal seminato e troppo lungimirante per limitarsi ad adempiere alla definizione di scrittore di storie maledette che a quel punto gli calzava già a pennello. Vuole esplorare la memoria, la sua e quella degli altri. Vuole dare alle sue storie nuovi sfondi, ai suoi personaggi nuovi risvolti che trascendano l’azione.

E così Red, il narratore di Rita Hayworth, la “storia di primavera” che apre il libro, non è solamente un vettore strumentale per una storia di carcere: è l’incarnazione del carcere stesso, dell’ingiustizia che trasuda dai muri insuperabili della terribile prigione di Shawshank, ma soprattutto è il Virgilio che accompagna il lettore nella terra incognita che l’autore ha scelto per allargare il suo orizzonte di esplorazione. Fuori dall’horror, dentro un ambiente più intimo e morale.

Tod, il ragazzino protagonista della “storia d’estate” L’allievo, morbosamente affascinato dai crimini nazisti al punto di scovare e ricattare un ex comandante di un campo di concentramento sfuggito ai servizi segreti israeliani, finisce per riflettere il senso di fascinazione dell’autore per il male universale. Per King non esisteva niente di lontanamente concepibile più terrificante delle atrocità naziste. Nemmeno una mente come la sua, abituata a spaziare liberamente nell’orrore più sterminato, poteva arrivare a immaginare qualcosa di così intrinsecamente malvagio. Ripetersi ogni sera questa storia era il suo modo per provare a comprendere l’inspiegabile. Era un suo gesto di liberazione, di razionalizzazione dell’irrazionale e di affermazione della sua più alta aspirazione: esplorare il male, per renderlo, un giorno, innocuo.

Gordie Lachance, voce narrante di Il corpo, è l’osservatore impassibile di una stagione destinata a passare. L’autunno dell’innocenza che sta per sfumare nel lungo inverno dell’età adulta. Scrittore riluttante, osserva i suoi compagni di avventure come King osserva i suoi ricordi e li ripete, per non dimenticare mai l’assoluta libertà dell’immaginazione dei ragazzini – motore di tutta la sua ispirazione.

Gli anni Sessanta quasi completamente spensierati della terza novella di Stagioni diverse sono poi il brogliaccio sul quale verranno costruiti capolavori come It e 22/11/1963. Quel mondo sospeso e a tratti irreale dove il male e il bene vanno di pari passo e quando si incrociano scatenano la narrazione.

Se tutti i personaggi delle prime tre novelle sono una proiezione della mente razionale di King, alle prese con la riflessione al di fuori del fantastico, il narratore della “storia d’inverno”, Il metodo di respirazione, si pone come un costernato ritorno all’irrazionale. È il membro di un club del quale non conosce i limiti e non riesce a venire a capo dei misteri, non sa nemmeno bene come ha fatto a entrarci, ma non riesce a farne a meno. Ascolta storie di inaudita violenza e crudeltà e si limita a riportarle sollevando, di tanto in tanto e timidamente, qualche domanda che sa già che non avrà risposta.

Di fronte all’immaginazione

Si tratta, naturalmente, di considerazioni a posteriori fatte sull’insieme di quattro storie scritte in epoche diverse e che, solo per puro caso editoriale, si sono ritrovate l’una accanto all’altra. Ma se è vero che nell’universo kinghiano niente è lasciato in balia del destino cieco, anche in questo caso non si può fare a meno di pensare che il protagonista dell’ultima novella sia proprio King, messo di fronte al suo immaginario.

«Non so da dove vengano le idee», ha detto in un’intervista. «Ma ogni volta che me ne viene una ho perfettamente chiaro dove voglia andare». Come il membro di un circolo così esclusivo da contare un solo socio, affacciato sull’ignoto che rappresenta il suo più grande piacere; la sua fissazione; tutto il suo mondo.

La fortuna di Stagioni diverse è quella di essere diventato un libro fondativo per molti lettori, che si sono ritrovati a immedesimarsi in ognuna delle quattro proiezioni di King, tanto sulla pagina che nelle tre trasposizioni cinematografiche che ne sono derivate (Le ali della libertà, di Frank Darabont, L’allievo, di Bryan Singer, e Stand By Me, di Rob Reiner). Ma è anche, e soprattutto, quella di aver consolidato il mito al di fuori del racconto: lo scrittore capace di tutto, animato da un fuoco sacro impossibile da soffocare, impavido e pronto a gettare il cuore oltre l’ostacolo per inseguire la storia che ha deciso, consciamente o inconsciamente, di raccontare.

Ci ha regalato lo Stephen King che conosciamo, e non è cosa da poco. 


Stagioni diverse (Sperling&Kupfer 2023, pp. 528, euro 19,90)

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