La Bibbia è costellata di sogni e di conseguenza ne sono fitti la letteratura e l’immaginario dell’ebraismo e del cristianesimo. Ma come scrive Borges sono piuttosto insegnamenti, perché «non hanno stile di sogno; sono profezie che impiegano in maniera troppo coerente un meccanismo di metafore»
Jorge Luis Borges, all’inizio del suo Libro di sogni (curato da Tommaso Scarano per Adelphi), raccoglie e riscrive in una trentina di pagine un buon numero di quelli raccontati nella Bibbia. Dai più celebri delle Scritture ebraiche – come quello della scala che arriva al cielo vista da Giacobbe – ai molti che si ritrovano nel Nuovo Testamento, come quelli di Giuseppe e dei magi all’inizio del vangelo secondo Matteo, che tornano nella liturgia e nella devozione cristiane del tempo di Natale.
La Bibbia è costellata di sogni e di visioni, spesso notturne, e di conseguenza ne sono fitti la letteratura e l’immaginario dell’ebraismo e del cristianesimo, contigui alle letterature dell’antichità. Ha dunque ragione Borges quando osserva che «i sogni costituiscono il più antico, e non meno complesso, dei generi letterari», anche se nella sua raccolta – che comprende «autori fittizi e opere immaginarie» – figura anche una frase dell’Ecclesiaste di tenore quasi psicanalitico: «Dalle molte preoccupazioni nascono i sogni».
Insegnamenti e profezie
Quelli delle Scritture sono però piuttosto insegnamenti, perché «non hanno stile di sogno; sono profezie che impiegano in maniera troppo coerente un meccanismo di metafore». Borges non dimentica infatti la parola divina nel libro dei Numeri (12, 6) secondo la quale «se uno di voi sarà profeta, io mi rivelerò a lui in visione, e gli parlerò in sogno». E così accade in diversi libri delle Scritture ebraiche, dai più antichi (per esempio, quello dei Giudici) ai più recenti, come Ester oppure il secondo dei Maccabei, entrambi scritti nel II secolo prima dell’èra cristiana.
Di grande suggestione è il primo sogno che si trova nella Bibbia, quello appunto di Giacobbe, descritto nel ventottesimo capitolo della Genesi. Il patriarca che ha rubato la primogenitura a Esaù è in fuga: «Solo, inerme, in stato miserando, corre a perdifiato per una landa informe e sconosciuta, col fratello furibondo alle calcagna. Di una cosa è certo: se costui lo agguanta, lo fa a pezzi sull’istante» immagina in un piccolo libro (Bibbia e sogno, Claudiana) lo scrittore e giornalista Giampiero Comolli, presidente del Centro culturale protestante di Milano, che estende la sua ricognizione anche al sonno nelle Scritture.
Il sole sta tramontando e Giacobbe decide di fermarsi, sceglie una pietra come capezzale e si addormenta. «Fece un sogno: una scala – si legge nella Genesi – poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo; ed ecco, gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa». Dall’alto il Signore promette al patriarca la terra, una discendenza innumerevole, la benedizione di tutte le genti e la sua protezione.
Riscosso dal sonno, il patriarca prova timore perché si rende conto di trovarsi in un luogo sacro, dunque «terribile», ed esclama: «Questa è proprio la casa di Dio, questa è la porta del cielo!». La mattina prende la pietra sulla quale ha dormito, ne fa una stele e vi versa sopra dell’olio perché «casa di Dio».
Le versioni aramaiche del testo biblico aiutano a decifrarlo. Prima dell’èra cristiana il Targum del Pentateuco identifica infatti il luogo dove Giacobbe ha visto la scala – e la stessa pietra da lui consacrata – con quello della «gloria» divina e del santuario dove le si renderà culto, cioè del tempio di Gerusalemme, come alcuni decenni più tardi è implicito nel vangelo secondo Giovanni.
Alla fine del primo capitolo del testo giovanneo, infatti, Gesù incontra Natanaele e gli dice che vedrà «il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sopra il figlio dell’uomo», con allusione trasparente al sogno di Giacobbe.
Ma le parole del maestro non significano solo che tra il cielo e la terra vi è comunicazione, perché sono proprio le interpretazioni del Targum a illuminare la portata del detto evangelico. È Cristo stesso ad affermare di essere lui il luogo dove salgono e scendono gli angeli: il nuovo tempio, come l’evangelista conferma nel capitolo successivo quando spiega che Gesù «parlava del tempio del suo corpo».
Nelle sacre Scritture i sognatori per eccellenza, capaci d’interpretare anche i sogni più misteriosi, sono due: Giuseppe, figlio di Giacobbe, e il profeta Daniele. Thomas Mann nel suo Il giovane Giuseppe – secondo libro della tetralogia dedicata al patriarca – immagina che questi volentieri li racconti al fratello più piccolo, Beniamino.
E saranno proprio i sogni all’origine dapprima dell’apparente sventura ma poi della fortuna di Giuseppe, colui che spiegherà con successo i sogni del faraone, come narra la sua epopea negli ultimi tredici capitoli della Genesi.
In uno scenario completamente diverso vengono collocati i sogni messianici (e politici) del profeta Daniele, sceneggiati alla corte di Nabucodonosor ma scritti nel II secolo avanti l’èra cristiana, al tempo cioè dell’insurrezione dei maccabei contro il dominio pagano.
Famosi sono quelli della statua d’oro, d’argento, di bronzo e d’argilla, che crolla frantumata da una pietra, e delle quattro bestie che salgono dal mare, ma anche le visioni della mano misteriosa che scrive durante il banchetto e del figlio d’uomo tra le nubi del cielo. Molti libri apocrifi, così come quello biblico di Daniele, prevedono la fine dei tempi attraverso sogni enigmatici e visioni di rivelazione (apokàlypsis, in greco), che sono di consolazione e di sostegno in un’epoca di prova.
Nei vangeli
All’inizio del vangelo secondo Matteo la vicenda di un altro Giuseppe si ricollega con i suoi sogni al sognatore della Genesi. In sogno lo sposo di Maria viene rassicurato sulla sua prodigiosa gravidanza «prima che andassero a vivere insieme», in sogno gli viene comandato di fuggire in Egitto – là dov’era stato portato Giuseppe venduto dai fratelli – e in sogno l’angelo gli dice di tornare prima «nella terra d’Israele», dopo la morte di «quelli che cercavano di uccidere il bambino», e poi in Galilea. E in sogno i magi vengono avvertiti di evitare Erode, dopo aver adorato «il re dei giudei».
Ma i sogni del Nuovo Testamento non sono solo quelli accennati sobriamente dall’evangelista Matteo. In un tentativo audace e devoto Comolli cerca d’ipotizzare quelli che potrebbero essere stati i sogni di Gesù «inviatigli dal Padre».
Poi scrive dell’unico sogno di una donna – per di più una pagana, la moglie di Pilato – a cui accenna la Bibbia, quando sempre l’evangelista Matteo narra il giudizio di Gesù portato davanti al rappresentante dell’imperatore: «Non avere a che fare con quel giusto, perché oggi, in sogno, sono stata molto turbata per causa sua».
Il cenno dell’evangelista è ritenuto non attendibile da due storici che hanno studiato con rigore e finezza la figura di Ponzio Pilato – Helen Bond (Paideia) e Aldo Schiavone (Einaudi) – ma il particolare viene sviluppato negli apocrifi (come poi nella letteratura e nel cinema) incentrati sul prefetto romano della Giudea. La donna ha un nome, Claudia Procla (o Procula), ed è identificata addirittura con una nipote di Augusto, venerata come santa in alcune chiese orientali. Comolli non entra nella questione e scrive che l’episodio della moglie di Pilato rientra «nel grande oblio dove giace il ricordo delle tante donne che hanno desiderato invano il bene di qualcuno».
Doppia visione
Sogni meno conosciuti ma decisivi sono quelli del secondo libro dell’evangelista Luca, gli Atti degli apostoli. Protagonisti sono i due eroi – Pietro e Paolo – di questa narrazione travolgente che Rossellini portò sullo schermo con la consulenza dei biblisti gesuiti Stanislas Lyonnet e Carlo Maria Martini ed è ovviamente tra le fonti del recentissimo Paolo di Tarso di Daniel Marguerat (Claudiana).
Luca parla piuttosto di visioni, che in due casi addirittura s’intrecciano. Doppio sogno intitola però Borges le prime due, simultanee, di Paolo e di Anania, dopo la conversione sulla via di Damasco. Un centurione pagano, Cornelio, e Pietro sono invece i destinatari a Cesarea delle altre due visioni parallele, che convincono l’apostolo a non fare più distinzione tra cibi puri e impuri, nodo importante per l’affermazione della «via» predicata da Gesù, e così ad aprirsi ai pagani.
Un’altra visione, stavolta notturna, segna infine l’inizio dell’evangelizzazione dell’Europa. Appare a Paolo un macedone – che secondo la convincente immaginazione di Emmanuel Carrère (Il Regno, Adelphi) è lo stesso Luca – e lo implora: «Vieni in Macedonia e aiutaci». E dopo la visione, continua il testo che all’improvviso passa alla prima persona plurale, «subito cercammo di partire per la Macedonia, ritenendo che Dio ci avesse chiamati ad annunciare loro il Vangelo».
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