Un bilancio della Mostra del cinema di Venezia tra le pellicole premiate dalla giuria, quelle non gradite e i film che dovevano essere in gara. Sullo sfondo della settimana l’epilogo della vicenda Sangiuliano
Bisognerebbe premiare la giuria di Isabelle Huppert per i premi che non ha dato, e in subordine per quelli che ha dato. Per evitare di impiccarmi da sola in questo groviglio, vado per ordine. Non è mai chic essere in sintonia con i Leoni veneziani, ma ho visto troppe volte la desolazione di Pedro Almodòvar sistematicamente sconfitto a Cannes e a Venezia per non godere del Leone d’oro a La stanza accanto. A una manciata di giorni dai 75 anni, questo è il suo primo trionfo in uno dei due massimi festival europei.
Il Gran Premio della Giuria all’italiano Vermiglio di Maura Delpero è sorprendente e coraggioso. Vincent Lindon è diventato bravissimo solo passati i 50, o forse ha solo imparato a scegliere i film. Ha vinto la Coppa Volpi come interprete di Jouer avec le feu. Nel film di Delphine e Muriel Coulin è un ferroviere di sinistra padre di un neo-fascista omicida.
Alla proiezione ufficiale-quindici minuti di applausi, li ho cronometrati – piangeva senza ritegno. Se per I’m Still Here di Walter Salles in molti singhiozzavamo di cuore molto del merito va agli scrittori Murilo Hauser e Hector Lorena, premio per la sceneggiatura.
Il Leone d’argento per la regia a Brady Corbet, The Brutalist? Io sono uscita a metà perché sono rozza e perché 215 minuti sul sogno americano di un architetto ungherese sopravvissuto al lager, girati in 70 mm – il top della definizione – mi sembravano troppi. Chi ha resistito garantisce che è un cult.
Parafrasando George Orwell, tutti i premi sono uguali, ma qualcuno è più uguale degli altri. Bacerei Huppert, e uno per uno tutti i giurati (come alla cerimonia ha fatto Lindon) per la Coppa Volpi della miglior attrice a Nicole Kidman. Babygirl è stato massacrato dai critici perché le pulsioni sadomaso della sessualità femminile a loro ricordano 50 Sfumature di Grigio. Non indago sul loro privato.
Contavo sull’intelligenza di Huppert, che ha osato l’estremo in Elle e in La Pianista, e avevo ragione. Ricordo che per statuto il concorso non può assegnare due premi allo stesso film: le Tilda Swinton e Julianne Moore di Almodovar erano fuori gioco.
Cosa non hanno premiato
Le bocciature solenni sono sublimi, a cominciare da Queer di Luca Guadagnino, che per molti è un capolavoro ma è un film sbagliato. E poi Maria di Pablo Larrain sulla Callas, Dio ci salvi dalla vipperia femminile del XX secolo che ha fagocitato l’ex regista impegnato cileno. Il Joker: Folie à deux di Todd Phillips scontava l’handicap del Leone al primo Joker di cinque anni fa.
Di tanti altri titoli, anche italiani, tacere è bello. Cannes cade spesso nei trappoloni woke, nelle provocazioni modaiole di pura facciata, ma qui in giuria c’era anche il nostro Peppuccio Tornatore, che la testa ce l’ha al posto giusto.
Le serie
Venezia 81 ha segnato una svolta epocale. È stato il primo festival a ospitarne quattro, tutte in versione integrale: non solo M. L’uomo del secolo, capolavoro di Joe Wright per Sky, anche Disclaimer-La vita perfetta di Alfonso Cuaròn per Apple Tv+, Families like ours di Thomas Vintenberg e Los anos nuevos di Rodrigo Soroyen. A Cannes e a Venezia finora si vedevano solo un paio di episodi.
Bloccare una sala per sette-otto ore, sia pure divise in blocchi, logisticamente è un problema serio. Ma il direttore artistico Alberto Barbera ha formalmente sancito il divorzio tra i ‘film lunghi’ d’autore e l’ordinaria merce seriale da piattaforma. Anche la distinzione lessicale è ufficialmente codificata.
Da Cate Blanchett al superlativo Luca Marinelli, questi lavori fornivano eccellente combustibile al red carpet e al glamour da copertina, ma non è questa la ragione primaria. Lo sdoganamento dall’arte di serie B è una cesura: Barbera l’ha fatta. Obbligatoriamente fuori concorso, M. è forse il vero gioiello di questa edizione.
Il ministro
Negli undici giorni della Mostra Gennaro Sangiuliano, il nostro ministro della Cultura, assiduo protagonista in loco di tutti gli eventi istituzionali, ha consumato la sua parabola in sinc perfetto con l’epilogo del cerimoniale: due sipari che calano in simultanea, con quello politico che ruba la scena ai Leoni. La regia (che non c’è) fa concorrenza alle migliori saghe di Hollywood: Sunset Boulevard sotto i riflettori. Col suo pallino per le fatali coincidenze del Caso, Woody Allen ne sarebbe estasiato. Magari potrebbe farci il suo prossimo film.
I film che dovevano stare in concorso
Per amor di polemica, ogni anno plebiscitariamente affiora un pugno di titoli considerati a gran voce più degni di correre per i Leoni di quelli in gara. Accadde per Ariaferma di Leonardo di Costanzo come per Non essere cattivo di Claudio Caligari, ma l’elenco è lungo.
In questa edizione i colpevolmente esclusi – a furor di stampa – sono Il tempo che ci vuole di Francesca Comencini, che è una struggente lettera d’amore a suo padre Luigi, Diciannove, autobiografica opera prima di Giovanni Tortorici prodotta da Luca Guadagnino che era nella sezione Orizzonti, e Familia di Francesco Costabile. Familia però è stato l’unico film italiano premiato a Orizzonti, per l’interpretazione di Francesco Gheghi. Non è un risarcimento da poco.
Tutti facciamo per consuetudine le pulci alla selezione: sarà uno sport frivolo ma non costa niente. I ‘grandi nomi’ però, quelli che danno lustro e su cui non obietta nessuno, hanno ripetuto fino alla nausea che sono alla Mostra per devozione assoluta ad Alberto Barbera.
Sarà banale ma i festival si nutrono di rapporti personali. E fa tremare pensare al futuro. Cosa ci aspetta dopo il 2026, a scadenza di proroga del mandato del direttore artistico in carica? La nostra premier promette di “consolidare la discontinuità” della nostra cultura rispetto al passato. Faremo i conti con pulci formato gigante?
L’usanza del paese
Rubo il titolo a Edith Wharton per registrare un vezzo curioso che in questa Venezia 81 è diventato consuetudine. È in crescita esponenziale il numero dei professional che escono da una proiezione dicendo una cosa e poi ne scrivono un’altra, spesso diametralmente opposta.
La deriva dei continenti produttivi ha coagulato nuovi agglomerati di potere, concentrati in pochissime mani. Chissà se è un fattore che pesa. L’aria greve che tira nei posti di lavoro, unita al senso di precarietà che ci assedia, alimenta una cappa distopica di autocensura diffusa.
Il sesso
I sani istinti primari dovevano tornare a bomba nei film della mostra, da anticipazioni. Solo Babygirl ha mantenuto la promessa. Non c’è bisogno di denudare Nicole Kidman per inchiodare il pubblico alla poltrona. Le Cicciolina, Moana e Eva Hunger di Diva Futura sono zombie severamente accollate.
Il norvegese Love di Dag Johan Haugerud è una gentile disamina dei multiformi piaceri del sesso esclusivamente parlato. Ma Dio volendo l’omofobia, almeno su schermo, ce la siamo lasciata alle spalle. Il Daniel Craig di Queer non è il solo ad esporsi su questo fronte civile, ma con Kidman è il più coraggioso. E’ già qualcosa.
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