Questa non è una recensione. È un flash dal campeggio vacanze che per i rituali undici giorni della Mostra del cinema trasforma la lingua di terra del Lido in parcheggio per happy few, che tanto happy non sono e certamente non few. Passati i Leoni, questa periferia-dormitorio di lusso della città lagunare, dove le quattro ruote non sono al bando ma per ironia devono arrivare per mare, viene riconsegnata ai legittimi proprietari: cani, biciclette e anziani in subordine.

Che privilegi offre questo soggiorno-lampo costoso - oltre ai film, va da sé – se feste, selfie, red carpet e guarda-chi-c’è-anche-tu-qui non sono la tua cup of tea?

Può capitarti, se hai molta fortuna, di ascoltare persone intelligenti dire cose intelligenti. Cose che non avevi pensato. A me è successo ascoltando Fabrizio Gifuni parlare di Il tempo che ci vuole, il film autobiografico che Francesca Comencini ha dedicato a suo padre Luigi Comencini e a un rapporto padre-figlia che è il sogno di tutti i mortali. Tutti vorremmo un genitore - artista o no ha poca o nessuna importanza – impegnato a crescere noi meglio e più dei prodotti del suo lavoro. E tutti meriterebbero di averlo, se a questo mondo ci fosse giustizia. Il film è prodotto da Marco Bellocchio, va in sala con 01 il 26 settembre, a Venezia è fuori concorso e il plotone degli indignati perché non è in corsa per il Leone d’oro è di tutto rispetto. Ma non è questo il punto.

Sessanta milioni di critici cinematografici

Fabrizio Gifuni interpreta Luigi Comencini, la Romana Maggiora Vergano che era la figlia di Paola Cortellesi nel campione d’incassi C’è ancora domani è l’alter ego della regista. Non c’è spettatore che non si illuda di aver capito tutto di un film. Non so altrove, ma in Italia se non ti batte in petto il cuore di un allenatore di calcio almeno ti batte in petto un cuore da critico cinematografico. Il privilegio di campeggiare al Lido in medias res consiste nella salutare scoperta che per fortuna c’è chi è più intelligente di te.

Autori di prima grandezza si sono misurati con Pinocchio. A mio contestabilissimo parere, la versione seriale di Comencini per la tv del remoto 1972 non ha ancora trovato competitors. Francesca bambina c’è andata, su quel set paterno, e nel film lo racconta. Gifuni mi ha proposto una chiave di lettura di Il tempo che ci vuole, e del coming of age che resoconta, che mi ha illuminato. «È in fondo la storia di Pinocchio - dice del film, che per la regista è "un
teatro della memoria” - con la disobbedienza iniziale, la parabola della crescita di un essere umano, i fallimenti, le bugie, e quanto sia necessario anche, in alcuni momenti, mentire ed essere scoperti. È entrare in un dispositivo che somiglia a quello delle favole, in cui si mischia continuamente realtà materiale, tangibile, e mondo immaginifico».

Garantisco che non è una lisciata a un attore che di sicuro amo e rispetto. È che uno sguardo più penetrante del tuo può darti la voglia di rivedere un film. In certi momenti fa piacere scoprire che dopotutto quello a Venezia, anche per questa volta, non è stato poi un viaggio inutile.

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